Artemisia Gentileschi, l’antesignana della scuola napoletana, dipinse quadri memorabili durante un’esistenza eccezionale e difficile.
Sulla pagina italiana principale di Google è presente oggi un’immagine che celebra la figura di Artemisia Gentileschi. Nata a Roma nel 1597, Gentileschi fu un personaggio meno noto ma centrale nella storia della pittura barocca italiana e in particolare della scuola napoletana. Nella prima parte della sua vita lavorò prevalentemente tra Roma, Firenze e Venezia. Ma è a Napoli, dove si stabilì dal 1630 e morì nel 1652, che lasciò la sua più preziosa eredità artistica.
A differenza di gran parte delle artiste a lei contemporanee, Gentileschi fu un’apprezzata ritrattista di stile caravaggesco nonché pittrice di quadri religiosi. Rifiutò i soggetti più consueti, come ad esempio le nature morte, per concentrarsi anche su soggetti “alti” e dell’arte sacra. Uno dei suoi più celebri dipinti, “Giuditta che decapita Oloferne”, ritrae la scena biblica della decapitazione del generale di Nabucodonosor per mano della giovane e bellissima eroina della città di Betulia.
La madre di Artemisia Gentileschi morì di parto quando Artemisia aveva appena dodici anni. Il padre, Orazio Gentileschi, era un altro conosciuto e apprezzato artista dell’epoca, e iniziò sua figlia alla pittura fin da quando lei era giovanissima. Artemisia mostrò più talento dei suoi fratelli, pittori anche loro, ma dovette battersi contro i pregiudizi dei molti che nel Seicento non ritenevano la pittura una cosa da donne.
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Alla figura di Artemisia Gentileschi è legata anche una vicenda di violenza sessuale subita dalla pittrice nel 1611, quando aveva 15 anni. Nel processo che ne seguì, lei stessa affrontò delle torture per verificare l’attendibilità delle sue accuse di abuso. A stuprare Gentileschi fu Agostino Tassi, suo maestro di prospettiva nella bottega del padre di Artemisia, Orazio.
Per provare la veridicità delle sue parole Gentileschi accettò di testimoniare sotto tortura, un tipo riservato agli artisti: la cosiddetta “tortura della Sibilla”. Il supplizio prevedeva che alle dita dell’artista venissero legate delle funi talmente strette da provocare sanguinamento. Il processo si concluse a ottobre del 1612 con la condanna di Agostino Tassi a cinque anni di lavori forzati. Alla fine scontò una pena di otto mesi nella prigione di Corte Savella.