L’International Festival of Journalism di Perugia, che si è ormai imposto tra i più importanti eventi in Europa, ha appena ricevuto la collaborazione di Amazon per la realizzazione dell’ottava edizione, che si terrà dal 30 aprile al 4 maggio. La notizia fa scalpore perché segue quella dei mesi scorsi, abbastanza traumatica, quando ad ottobre si annunciava l’intenzione di fermare il Festival del Giornalismo, in quanto il budget disposto non era all’altezza della manifestazione.
Dopo essersi alzato un grande polverone attorno alla vicenda, sempre più personalità note si sono unite al coro dei cittadini che chiedevano di non fermare l’evento, sostenendo fosse possibile sperimentare la via del crowdfunding. Così fu. Infatti, solo qualche settimana dopo, la fondatrice Arianna Ciccone, affiancata dal co-organizzatore, Chris Potter, ha rilanciato l’organizzazione del festival, rinunciando ufficialmente ai contributi pubblici.
Hanno aderito in molti e in, particolare la questione della sponsorship di Amazon, che è la più importante di tutte, solleva di nuovo i temi di sostenibilità economica dell’editoria in crisi, soprattutto quella italiana. Ecco perché ho deciso di parlarne direttamente con Arianna Ciccone, che ha risposto così alle mie domande.
Il Festival del Giornalismo di Perugia quest’anno rischiava di non essere realizzato, poi è nata la sponsorship con Amazon ed altri attori come Google, Nestlè, la Commissione UE, Autostrade per L’Italia: quali sono i fattori di convincimento e coinvolgimento degli investitori di un progetto a cui avevate rinunciato?
No, non è così. Abbiamo lanciato il crowdfunding, sponsor storici come Enel e Tim hanno deciso di investire di più. E poi sono arrivati sponsor nuovi come Google e Amazon. Il festival è un festival indipendente, capace di ospitare voci diverse del giornalismo provenienti da tutto il mondo. Credibilità, reputazione, innovazione e apertura. Secondo me queste sono le parole chiave.
Secondo te la raccolta in crowdfunding, nata come primo tentativo di finanziamento, è stata efficace? Più in termini economici o di comunicazione?
Abbiamo raccolto in 90 giorni 115.420mila euro con 750 donatori. Direi che sono numeri che parlano da soli. Tra l’altro abbiamo scelto un profilo basso per la promozione della raccolta. Abbiamo cercato di essere il meno invadenti possibile. Credo che più che un successo di comunicazione sia stato un successo della reputazione che il Festival ha costruito e conquistato sul campo in questi anni.
Rinunciare ad un Festival del Giornalismo come quello in questione, connotato da grande successo, partecipazione e anche critica, significa lanciare indirettamente un messaggio: che in Italia sono morti il giornalismo e i giornalisti, o il mondo dell’informazione come business?
No il messaggio semmai era: le dinamiche di “distribuzione” dei contributi pubblici (e per certi versi anche di quelli privati) andrebbero riviste nell’ottica del merito e non dell’appartenenza politica o dell’appartenenza a gruppi di potere.
In concreto, come?
Basterebbe che chi ha responsabilità in questo senso scegliesse in base al merito.
Fra le critiche che l’IJF ha ricevuto c’è quella di aver dato eccessivo spazio ad improvvisi entusiasmi, promesse facili e innovazioni che non si sono mai viste trasformare in realtà, mettendo in secondo piano il tema dell’Informazione. Sei d’accordo?
Io queste critiche non le ho viste. Quindi non so di che parliamo. Il festival è un luogo di incontro, di discussione, di confronto. Chi dice che ha trovato la formula vincente per il futuro sta mentendo.
Al festival non si somministrano verità assolute o “terapie” risolutive. Ma ripeto non so di che stiamo parlando. Mi dispiace.
Qual è l’urgenza da affrontare nel mondo dell’editoria: i nuovi modelli di informazione online, le nuove tecniche di social journalism o ancora, e per l’ennesima volta, la sostenibilità economica dei nuovi prodotti?
In realtà è tutto molto complesso. Non c’è una soluzione valida per tutti. Oggi è il momento di innovare, sperimentare. Senza paura. Ci voglio anche tanti investimenti per questo. Mettendo in conto che ci vorranno anni e che si potrà comunque fallire. In ogni caso sì ci saranno più modelli.
Ad oggi in Italia non vedo novità capaci di intercettare il target dei più giovani che saranno i “lettori di domani”.
Considerata la situazione in cui siamo calati, c’è spazio in Italia per piccoli editori e prodotti indipendenti?
C’è spazio sempre per le buone idee…
Un consiglio che lasceresti in eredità a chi vuole ripercorrere i tuoi stessi passi?
Andare via dall’Italia, magari per tornare… Ma il primo passo è formarsi all’estero.
[Credits foto: Pietro Viti, da facebook.com/internationaljournalismfestival]