Il 1997 è l’anno in cui una band francese dal talento spaventoso rivoluziona il mondo della musica elettronica: esce Homework, l’album d’esordio dei Daft Punk. Quel disco contiene Da Funk, il primo brano che rivela alla massa il duo parigino. E alla massa rivela anche colui che concepisce e dirige il videoclip del pezzo: un regista americano di nemmeno 28 anni, che di nome fa Adam Spiegel, ma per tutti è e rimarrà Spike Jonze. Nella clip di Da Funk il giovane autore ci mette già del suo; nell’uomo con la testa di cane che passeggia per New York ci mette un’idea. Quella che l’uomo, nella sua essenza, trascende la carne.
Passando per Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee e Nel paese delle creature selvagge, dopo più di quindici anni Spike Jonze continua a svilupparla, quell’idea. In Lei (Her) – un meritato Oscar per la miglior sceneggiatura originale – il regista di Rockville ci porta in futuro così immediato da non sembrare tale, in cui pantaloni ascellari e camicie sgargianti sono all’ultima moda e in cui le persone, per comunicare con gli altri, hanno bisogno di ghostwriter che scrivano per loro. Uno di questi è Theodore (Joaquin Phoenix), una separazione dolorosa ancora da chiudere e un cuore vuoto e malinconico da guarire. Theodore acquista un OS1, esemplare dell’ultima generazione dei sistemi operativi, in grado di comunicare ed esprimere sentimenti umani. La voce di Samantha, questo il nome dell’OS, arriva pian piano a riempire il vuoto nell’anima di Theodore, che la preferisce anche a donne in carne e ossa (la malcapitata Olivia Wilde). Come tutte le storie d’amore però, anche quella fra l’uomo e il computer mostra le proprie crepe.
Di amore in salsa esistenziale in effetti Spike Jonze ne sa qualcosa. Da quello schizofrenico fra Cusack e la Diaz nel John Malkovich a quello platonico tra Cage e la Streep nel Ladro di orchidee, Jonze ribadisce la sua personale visione dell’elemento che move il sole e l’altre stelle. L’amore non è altro che un ideale. Un folletto astratto che si sposta dagli occhi dell’ex moglie Catherine (Rooney Mara) al display dello smartphone in cui abita Samantha. Una concezione vicina a quella di Cronenberg, un altro che di amore, corpi e delle loro trasfigurazione, ne sa qualcosa.
Il mondo in cui si muove Theodore rappresenta la disgregazione della società e dell’uomo stesso: il progresso tecnologico, inversamente proporzionale a quello dei rapporti sociali, lo ha trasformato in una piattaforma abitata da uomini tendenti verso un autismo autoindotto, in grado di comunicare solo con (o al massimo tramite) i propri alter-ego in byte e ROM.
Perchè l’essere umano non si riconosce più in sè stesso: nel film si fa fatica a cogliere un dialogo di senso compiuto fra due persone, si assiste in compenso a conversazioni più che brillanti tra Theodore e Samantha, la cui bellezza è scalfita solo in superficie nell’edizione italiana dalla mediocre prestazione vocale di Micaela Ramazzotti.
Tuttavia è nelle scene in cui lui e lei sono lontani nello spazio, a milioni di chilometri (un incanto la voce di Karen O) che Lei scalda il cuore: con l’eccellente utilizzo del montaggio delle attrazioni; con la regia dinamica di Jonze; e con l’interpretazione di un Joaquin Phoenix, meraviglioso e tenerissimo, ingiustamente snobbato dall’Academy.
La locandina di Lei dice “Una storia d’amore di Spike Jonze”. É vero, ma c’è anche molto altro.