Continua a destare stupore il rapporto Oxfam sulla disuguaglianza nel mondo, secondo cui nelle mani di ottantacinque individui è concentrato un reddito equivalente a quello che si ottiene sommando il reddito di metà della popolazione mondiale. Due anni fa abbiamo superato la soglia dei sette miliardi: possibile che, di questi, solo l’1% sia in possesso di quasi metà del patrimonio mondiale?
Per quanto possano sembrare inspiegabili, le stime sono purtroppo veritiere. L’Oxfam stesso fornisce cinque buone ragioni per cui i conti dovrebbero tornare.
Tesi numero uno: “ovunque, gli individui più ricchi e le aziende nascondono migliaia di miliardi di dollari al fisco in una rete di paradisi fiscali in tutto il mondo. Si stima che 21.000 miliardi di dollari non siano registrati e siano offshore“.
La cifra corrisponde a quella individuata da uno studio pubblicato dall’associazione Tax Justice Network: “si tratta di qualcosa come la somma del valore di due economie come gli Stati Uniti ed il Giappone“. Stando a questo studio, la banche preferite dagli evasori sono le svizzere UBS e Credit Suisse e l’americana Goldman Sachs. Se questa prima tesi non dovesse ancora convincere, potremmo aggiungere il resto delle considerazioni del TJN. Ad esempio che la cifra sarebbe una stima per difetto (altrimenti, si potrebbe facilmente raggiungere i 32 miliardi); o che lo studio non tiene conto dei beni immobiliari o delle opere d’arte; infine che, se tutti i beni considerati possedessero un rendimento medio pari al 3% (relativamente basso, insomma), ne deriverebbe un flusso fiscale compreso tra i centonovanta e i duecentottanta miliardi di dollari – parlando in termini pratici, circa il doppio della cifra destinata agli aiuti per lo sviluppo versati annualmente dai Paesi ricchi dell’Ocse.
Tesi numero due: “negli Stati Uniti, anni e anni di deregolamentazione finanziaria sono strettamente correlati all’aumento del reddito dell’1% della popolazione più ricca del mondo che ora è ai livelli più alti dalla vigilia della Grande Depressione“.
Nel suo saggio “Il grande crollo”, dedicato appunto alla crisi del ’29, John Kenneth Galbraith metteva in luce come anche a quel tempo l’1% della popolazione Usa avesse tra le proprie mani un terzo del Prodotto lordo: proprio questo sarebbe stato, insieme alle note ed azzardate manovre finanziare, una delle cause del disastro che avrebbe coinvolto l’economia mondiale – il più grave, fino al quello del 2008.
Stando a quanto riportato da uno studio, pubblicato nel 2011, dell’Ufficio di bilancio del Congresso, dal 1979 al 2007 la media dei redditi dell’1% delle famiglie più ricche è aumentata del 275%: praticamente triplicata. Ma più si scende lungo la scala sociale e più il tasso di aumento del reddito diminuisce, sempre in proporzione alla ricchezza della fascia sociale. In questo modo, il 20% delle famiglie nella fascia alta hanno visto il proprio reddito aumentare del 60%; al capo opposto, il reddito del 20% delle famiglie nella fascia più bassa è aumentato solo del 18%. È così che i ricchi diventano sempre più ricchi.
Tesi numero tre: “in India, il numero di miliardari è aumentato di dieci volte negli ultimi dieci anni a seguito di un sistema fiscale altamente regressivo, di una totale assenza di mobilità sociale e politiche sociali“.
Nell’intera area asiatica bagnata dal Pacifico i miliardari sono aumentati dell’80%, raggiungendo la cifra di 234 (per ben 729 miliardi di dollari). Di questi, due sono indiani e sono tra le persone più ricche del pianeta: si tratta del magnate dell’acciaio Lakshmi Mittal e dell’industriale nel settore petrolchimico Mukesh Ambani.
Peccato però che, molto probabilmente, i due “Paperoni” erano destinati a diventarlo già dalla nascita. In una società ancora chiusa all’interno delle proprie caste, infatti, spesso e volentieri la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita è preclusa dal principio. Ecco dunque il motivo per cui se non si nasce ricchi non lo si diventerà mai.
Tesi numero quattro: “in Europa, la politica di austerity è stata imposta alle classi povere e alle classi medie a causa dell’enorme pressione dei mercati finanziari, dove i ricchi investitori hanno invece beneficiato del salvataggio statale delle istituzioni finanziarie“.
Da una parte, dunque, ci sono le classi medio/povere che, spremute dalla pressione fiscale, si vedono costrette a contribuire con i propri sacrifici; dall’altra, le élite finanziarie possono usufruire dei finanziamenti che quei contributi vanno a costituire, allargando così la forbice di della distribuzione della ricchezza.
Tesi numero cinque: “in Africa, le grandi multinazionali – in particolare quelle dell’industria mineraria/estrattiva – sfruttano la propria influenza per evitare l’imposizione fiscale e le royalties, riducendo in tal modo la disponibilità di risorse che i governi potrebbero utilizzare per combattere la povertà“.
Nel maggio 2013 a Città del Capo, in Sudafrica, si è svolta la conferenza africana del World economic forum , durante la quale è stato portato alla luce come ogni anno vadano persi almeno 38 miliardi di dollari che, dalle casse dei governi, finiscono immancabilmente nelle tasche delle compagnie minerarie. La denuncia è partita dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, dall’ex dirigente del Fondo monetario internazionale Michel Camdessus e dall’ex presidente della Nigeria Olusegun Obasanjo. “Non solo centinaia di aziende minerarie titolari di concessioni in Africa sono società offshore registrate in paradisi fiscali“, denuncia il Wef, “ma la frode fiscale che colpisce l’Africa è di dimensioni allarmanti. L’evasione ammonta ad almeno 38 miliardi di dollari ogni anno, una somma superiore agli aiuti mondiali allo sviluppo del continente“.
A tesi concluse, risulta forse più chiaro come si sia potuti arrivare ad un tale livello di sperequazione. La sfida, ora, è nel redistribuire in maniera più razionale la ricchezza che l’uomo è capace di produrre, in ogni angolo del globo.
[Credits Foto: Oxfam]