Chi dopo Hugo Cabret pensava ad uno Scorsese in ritirata (a 70 anni e passa) verso un cinema riflessivo ed intimista ha fatto male i calcoli: rispetto alla tenera favola ispirata a Meliès, The Wolf of Wall Street è un film totalmente diverso. Basata sull’omonima autobiografia dell’ex broker Jordan Belfort (presente in un cameo), l’ultima fatica del regista newyorkese riprende nettamente elementi tipici della poetica scorsesiana, esasperandone alcuni ed allontanandosi da altri. Quel che è certo, e visibile ad una prima superficiale visione, è che Martin è riuscito a plasmare una black-comedy che viaggia come un treno per centosettantanove splendidi minuti. Piacevole sul piano dell’intrattenimento, convincente su quello simbolico.
La storia del “lupo di Wall Street” (chiamato così nel ’91 da Forbes) ha inizio nel 1987, quando Belfort (Leonardo DiCaprio) arriva insieme alla moglie Teresa al quartiere degli affari di New York, con le idee già chiare. Incontra il suo primo capo, l’eccentrico Mark Hanna (Matthew McConaughey, apparizione breve ma brillante), accanito sostenitore dell’uso di droghe e con l’abitudine di canticchiare un motivetto africano per rilassarsi.
Jordan ottiene l’abilitazione a broker, ma poco dopo, durante il Black Monday, perde il lavoro.
Ripartirà dal basso, da un minuscolo centro di investimenti che opera in penny stock: in non molto tempo, e in collaborazione con un nuovo amico, il bizzarro Donnie Azoff (Jonah Hill), Belfort trasforma una piccola agenzia locale in una realtà nazionale, la Stratton Oakmont, che a sua volta, diventa rapidamente una compagnia da miliardi di dollari.
Gli effetti dell’aggressiva hi-life di Jordan, che ha messo scrupolosamente in pratica gli insegnamenti di Hanna, creeranno attorno a lui un’enorme e fragile bolla di successi e denaro, che rischia di scoppiare da un momento all’altro, non solo a causa dei suoi eccessi, ma anche della volontà di incastrarlo dell’agente FBI Patrick Denham (Kyle Chandler).
Raccontato così, The Wolf of Wall Street sembra uno dei tanti romanzi criminali tipici di Scorsese: in effetti, la prima frase di Belfort potrebbe anche essere “Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il broker”, tanto la struttura del percorso del lupo di Wall Street (ascesa-apice-caduta-rinascita) è simile a quella di Henry Hill in Quei bravi ragazzi. E la storia di Belfort è altresì raccontata alla Scorsese, con una colonna sonora al solito intrigante (R’n’b, hip-hop ma anche un classico italiano), una contaminazione con miti televisivi di fine anni ottanta ed un ricorso a temi tanto cari al regista newyorkese. A cominciare dalla rappresentazione della vita alla stregua di una giungla, in cui vige la legge del più forte: emblematica in merito l’opposizione metaforica fra l’ingresso in scena del leone che apre il film e il pesciolino (o meglio, il pesce piccolo) letteralmente divorato.
Pur essendo in superficie un’opera che punta, diciamolo pure, all’intrattenimento, The Wolf of Wall Street si rivela un prodotto a suo modo estremo: abbattuto il record di parolacce presenti in una sola pellicola (che apparteneva a Casinò, altro prodotto simile per tematiche e stile), il film di Scorsese mette in mostra un orrorifico campionario di umanità, tanto da fare apparire l’open-space della Stratton Oakmont un potenziale quarto girone del pasoliniano Salò.
E nonostante l’overdose di situazioni paradossali, l’adozione di un approccio decisamente autoreferenziale e l’aspetto psicologico piuttosto trascurato, il miracolo di Scorsese sta nel non snaturarsi, confermandosi innanzitutto un eccezionale narratore, in grado di rendere propri dei soggetti all’apparenza esterni al suo modo di fare cinema e piegarli alle esigenza di esprimere tematiche che da sempre caratterizzano la sua produzione.
Manco a dirlo, impressionante la performance di DiCaprio, che si conferma il miglior interprete della sua generazione e si prende un meritatissimo Golden Globe. Il Belfort che ci regala, un “Robin Hood degenerato che toglie ai ricchi per dare a sé stesso”, è un abisso di sogni e disperazione, di genio e idiozia, che corre come un criceto impazzito all’interno di una spirale di autodistruzione. Spietato come Gordon Gekko nell’ingannare il prossimo, bramoso di potere come Tony Montana, dall’eloquenza fenomenale, come Hitler. Di rara potenza (e bellezza) i suoi monologhi motivazionali.
Il Belfort di DiCaprio è insomma un lupo. Un lupo che cannibalizza il possibile, che si fa profeta di un dio di carta. Perché tutto si piega al volere del dio denaro, tutto viene attratto e fagocitato dal potere della banconota. Proprio tutto, compreso il sesso. Elemento che comunque pervade incessantemente l’opera, dai suoi aspetti più grotteschi a quelli metaforici, con continui riferimenti sia alla penetrazione quale simbolo del raggiro dell’ignaro cliente, sia ad ogni milione di dollari accumulato corrispondente ad un orgasmo.
Eludendo dunque qualsivoglia giudizio morale (presente invece nel Wall Street di Stone) The Wolf of Wall Street mostra l’altra faccia del sogno americano, quella che, dopo una vita condotta al massimo delle possibilità, ti presenta il conto. Un conto che ha il volto gentile di un anonimo sbirro che torna a casa in metropolitana.
Non perdetelo.