Non è una questione di numeri ma è inevitabile che tutto parta da lì. In Sud Sudan il bilancio delle vittime aumenta e la rabbia folle con la quale si combatte in quella zona così abbandonata alla guerriglia inizia a diventare una situazione di massima emergenza. Secondo la più recente stima dell’International Crisis Group il numero di morti sarebbe salito fino a sfiorare i 10.000, cifra che contrasta con quella in mano alle Nazioni Unite. Secondo l’analista del Gruppo Internazionale, Casie Copeland, infatti, la stima è dovuta all’incremento nelle ultime tre settimane, dei combattimenti in più di 30 differenti luoghi.
Sui numeri però si discute e anche parecchio. Secondo quanto riportato dal New York Times il problema del conteggio nasce fin dal 26 dicembre 2013, quando la rappresentante del Sud Sudan alle Nazioni Unite Hilde Johnson, ha stimato il numero dei morti a una cifra che a confronto della prima risulta quanto meno “sospetta”: 1000 persone. E non significa comportarsi come quei dottori che si vedono nei quadri del Sei o Settecento, intenti a sezionare e studiare cadaveri. Se sono le Nazioni Unite a occuparsi della questione, la questione deve essere chiara perché solo così si possono prendere le dovute misure d’intervento. Ecco perché l’analista Casie Copeland ribadisce che, pur non avendo la massima certezza, di certo la cifra delle vittime si avvicina più ai 10.000 che non ai 1.000.
Ma la motivazione più onesta e logica che ci sia dietro alla corsa dei numeri, la offre uno che sul campo ci vive, che conosce benissimo questo tipo di situazioni, che purtroppo ha avuto modo di approfondire più volte questa parte di Africa così martoriata: si tratta di John Prendergast della Enough Project. John fa parte di questa associazione non-profit contro i genocidi e ha affermato che sarà difficile decretare con sicurezza il bilancio o le stime di questa guerriglia finché non sarà più sicuro per i ricercatori raggiungere le zone peggiori dei combattimenti: “La via più precisa, per gli studi sulla mortalità, ora è impossibile da battere a causa del mancato accesso alle zone più calde del conflitto” ha dichiarato al New York Times.
La chiave di lettura offerta da Prendergast è questa: finché non si stabilisce ordine nell’entità del danno non si va avanti, ma per raggiungere le stime e le cifre ufficiali, è necessario agire, quindi rendere la situazione meno provinciale e più internazionale. Ad aggiungersi, la cronaca di un anomalo colpo di stato dalle modalità ancora non del tutto chiare, iniziato il 19 dicembre e che tutt’oggi prosegue verso una direzione poco limpida. Giovedì era il nono anniversario del Comprehensive Peace Agreement che aveva permesso al Sud Sudan di inscriversi in quella via chiamata indipendenza dal Sudan. Era anche il terzo anniversario dalla data dello storico referendum che aveva decretato la nascita del Sud Sudan, chiamando al voto un travolgente numero di persone.
Un Paese così giovane eppure così vecchio, così vivo di tradizioni che finiscono anche per uccidere. Tribù, tabù, rancori. Bisogna pensare al numero delle vittime per realizzare ciò che sta avvenendo? Forse in quest’ottica sì, forse è davvero necessario.