Le trattative per una politica di libero scambio tra Stati Uniti ed Unione Europea continuano, ma inciampano sempre più spesso. Il vecchio continente, infatti, sembra gradire sempre di meno l’ingerenza degli States.
Già dalla Francia è arrivata una multa a Google di 150.000 euro per violazione della privacy, seguita da una sanzione della Spagna, che ha chiesto 900.000 euro. Ma anche in altri Stati europei, come Germania e Italia, la tensione sale sempre di più e già si parla di una “European cloud” tra Francia e Germania, con cui limitare i dati in uscita dall’Europa verso le grandi aziende statunitensi.
Tra vecchio e nuovo continente, insomma, la privacy viene concepita in maniera diversa: mentre in Europa la riservatezza dei dati è considerata un diritto fondamentale, gli Stati Uniti sono più elastici da settore a settore, cosicché -per fare un esempio- si può accedere più facilmente a dati rilevanti per le tendenze di mercato, piuttosto che a quelli inerenti la sanità.
“In Europa abbiamo una vivida esperienza di oppressione“, ha dichiarato Jan Philipp Albrecht, membro del Green Party al Parlamento Europeo e sostenitore della privacy. “Ogni raccolta di una parte di dati è una violazione di un diritto fondamentale, e va giustificata“. Di contro, negli Stati Uniti c’è chi difende il proprio concetto di privacy ribattendo che, per quanto differente da quella europea, la normativa americana al riguardo ha comunque dimostrato di funzionare in più occasioni. “Abbiamo più cose in comune di quante ci separino” spiega Julie Brill, commissario della Federal Trade Commission. “C’è in gioco una parte della relazione commerciale trans-atlantica“.
Dopo gli scandali portati alla ribalta dal data-gate, Bruxelles sembra volersi gradualmente chiudere alle ingerenze d’oltreoceano. Tra chi in ogni caso continua a considerare i dati inseriti nel web una risorsa e chi invece vorrebbe più protezione davanti a quella che potrebbe trasformarsi in un’arma nelle mani di chi la detiene, almeno su un punto nell’Unione Europea sono tutti d’accordo: prima di qualunque accordo, anche gli Stati Uniti devono rinforzare le proprie leggi sulla privacy.
Dal canto loro, i senatori Ron Wyden e John Thune hanno proposto un disegno di legge in base al quale il flusso di dati potrebbe costituire il principio di negoziazioni commerciali. “C’è un chiaro pericolo se venissero ristretti i flussi di dati in entrata e in uscita dall’Europa. Speriamo che prevalgano le menti più fredde” dichiara Adam Schlosser dalla Camera di Commercio Statunitense.
È previsto per questo mese un accordo, denominato “Porto Sicuro”, tra Stati Uniti ed Unione Europea, con cui si prevede il diritto, per oltre 3.000 compagnie americane, tra cui Facebook, Google e Apple, il diritto di importare dati personali. La sfida è quella di far coesistere misure più restrittive di controllo dati e maggiori snodi commerciali tra i due continenti.
Le trattative risalgono in realtà agli anni ’90 e una prima bozza era stata approvata dall’Unione Europea nel 2000; a tutt’oggi, è ancora sotto scrutinio. L’accordo prevede che le compagnie statunitensi possano esportare dati dall’Europa, ma solo dopo aver garantito che gli utenti possano opporvisi o comunque lasciare che vengano esportati solo i dati considerati “rilevanti”.
Di lì in poi, la gestione dei dati è sempre stato terreno di scontro tra i due continenti: così ci furono polemiche nel 2006, quando la camera di compensazione con sede in Belgio ha rigirato agli Stati Uniti dati sulle transazioni commerciali europee nell’ambito di un’indagine sul terrorismo internazionale; o quando, nel 2012, la commissione Europea propose una nuova legge per intensificare la normativa sulla privacy, limitando i modi con cui esportare i dati fuori dall’Europa e creando nuovi diritti per gli utenti, come “il diritto ad essere dimenticati”, ovvero il cosiddetto “diritto all’oblio” che permette di non essere più ricordati per fatti che in passato furono oggetto di cronaca, ma che nella realtà attuale non sono più di interesse pubblico.
La lotta dunque c’è sempre stata e, presumibilmente, ci sarà sempre. Da una parte, le compagnie statunitensi premono per entrare in possesso di dati che potrebbero incrementare lo sviluppo dei propri mercati; dall’altra, lo spettro del “Grande Fratello” che controlla la vita quotidiana pubblica e privata di milioni di cittadini piace poco all’Europa, che ancora deve digerire la storia poco limpida del datagate. Il commissario di giustizia europeo Viviane Reding ha definito lo spionaggio “una chiamata a risvegliarsi“, che mostra come una nuova legge per la privacy sia una necessità.
La questione riguarda anche la Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), all’interno della quale gli Stati Uniti hanno sempre premuto per mantenere un regolare flusso di dati da una sponda all’altra dell’Oceano.
In Europa invece sono irremovibili e lo stesso Ignacio Garcia-Bercero, a capo della delegazione europea, ha spiegato come la questione dei dati non rientri nei temi dell’associazione.
Dal canto suo, la controparte americana Dan Mullaney ha notato come invece l’accordo potrebbe offrire la possibilità di “facilitare e supportare” il flusso di dati.
La tesi per ora sembra aver convinto solo il Regno Unito, da sempre pioniere dell’estremo liberoscambismo; Londra sembra infatti essere la prima nazione pronta a riconoscere il beneficio per gli affari che deriverebbe da una circolazione dei dati totalmente libera. Inoltre, non vi sarebbe neanche il tempo materiale per far passare la proposta di legge su una più rigida gestione: le elezioni europee sono previste a maggio.
Nel dubbio, alcune imprese americane stanno già correndo ai ripari: se i dati non potranno uscire dall’Europa, allora saranno loro ad entrarvi e così già si parla di stabilimenti americani nel vecchio continente.
“Ci stanno riflettendo tutti -spiega il dirigente di una compagnia di credito americana – cambierà il nostro modo di fare affari“.
[Fonte: Wall Street Journal]