Xavier Hernández Creus, meglio conosciuto come Xavi, è uno dei giocatori che ammiro di più, al mondo. Intelligente come pochi, abile nel palleggio, completo. In una parola: vincente. Credo farei fatica persino ad elencare tutte le coppe conquistate dal ragazzo della cantera blaugrana con il Barcellona e con la nazionale spagnola. Gli almanacchi parlano di 22 titoli che ne fanno il giocatore più vincente della storia del Barca, e non solo. Di un campione così non si può che avere rispetto, in ogni caso. Anche dopo l’uscita, non proprio da campione, di ieri. Per la cronaca vi riporto all’articolo di Gianluca Sasso, io preferisco sfruttare l’assist, millimetrico come al solito, del numero 6 per tornare sull’eterna diatriba tra vittoria e bel gioco.
Parlare di Mourinho fa sempre audience e questo il buon Xavi lo sa. Nemico dichiarato del Camp Nou, Mou è quello che nel giorno della semifinale di Champions disse ai suoi giocatori di aspettare negli spogliatoi. Lui sarebbe uscito dal tunnel prima dei sui prodi per attirare l’ira funesta del pubblico esclusivamente verso di sé. Non preparò una partita difensiva quella sera, ma dopo l’infortunio di Pandev nel riscaldamento e l’espulsione di Motta (dubbia) fu costretto a farla. Nella sua biografia “Giocare da uomo” Zanetti ricorda che, in piena trance agonistica, ad un certo punto disse ai suoi “Forza, è quasi finita!“. Era il 41′ del primo tempo.
Xavi ha ribadito che nessuno si ricorderà dell’Inter di Mourinho e io non mi sento di smontare completamente la sua tesi, piuttosto di discuterla. Arrigo Sacchi sottolinea spesso che tutti si ricordano del suo Milan per il bel gioco, prima ancora che per le vittorie. Non ha mai parlato male di Mourinho, o almeno non mi risulta, ma non mi sorprenderebbe se appoggiasse la tesi di Xavi. Per filosofia e cultura sportiva, Arrigo, che ho avuto la fortuna di intervistare, è molto più vicino al tiqui taka che al calcio cinico e astuto del vate di Setubal.
Di certo io la sua Inter me la ricordo eccome (e non solo perché non nascondo le mia simpatie nerazzurre), come ricordo il suo Porto. Faccio fatica piuttosto a ricordare il suo Chealsea e il suo Real, per un semplice motivo: non hanno vinto in Europa. I porquè di Mourinho non avranno mai la forza di quel meraviglioso discorso fatto prima della semifinale del Camp Nou, quando allenava l’Inter: “Andare a Madrid, per noi, è un sogno. Per loro un’ossessione“. Non credo che la sua Inter giocasse male. Anzi. Ho ancora negli occhi la semifinale di andata. L’importanza di Eto’o, il ruolo di Snejider, la solidità di quella difesa.
Ma se Xavi dice che “Nessuno ricorderà l’Inter di Mourinho” un po’ gli credo. All’estero quel ciclo, durato un anno solo, quindi troppo poco per essere definito tale, non avrà molto più appeal dell’impresa di una Stella Rossa di Belgrado o di un Porto qualunque. Ecco che, guardando l’albo d’oro della Champions, scopro proprio questo: l’Inter di Mou è solo un nome tra i nomi. Quelli ricorrenti di Manchester, Real, Barcellona, Milan, Bayern. Se da un lato questa unicità rende quel successo ancora più bello, dall’altro non fa che dare ragione al centrocampista del Barca. Una stagione di successi ti porta nella storia. Un ciclo nella leggenda. E la gente ricorda più facilmente la leggenda della storia.
Nonostante questo, caro Xavi, io mi tengo stretto quel sogno. Quella serata di metà maggio in cui le provaste tutte, dalle dichiarazioni di Piquè (“I giocatori dell’Inter si pentiranno per tutta la vita di aver scelto il mestiere di calciatori”), alla sceneggiata di Busquets, fino all’apertura degli idranti per non vedere scene di giubilo sul proprio sacro terreno. Perché il bello del calcio è anche questo: l’inaspettato, la resistenza, l’epicità. La stessa che permise al Chealsea di Di Matteo di compiere un’impresa ancora più grande, due stagioni dopo, nello stesso stadio e con un copione ancora più ricco di colpi di scena.
In una maglia celebrativa del Barca di qualche anno fa compariva una scritta che condivido in pieno: “No pienses en una temporada, pienses en la historia“. Successe dopo una stagione che portò “soltanto” alla conquista della Liga. Non c’è che dire, i giocatori del Barcellona rimangono sempre coerenti alla filosofia del loro club, a quel tiqui taka onanistico e a volte anche un po’ noioso, come scrive nel suo stupendo libro Michele Dalai. Io, caro Xavi, mi tengo anche la temporada, perché di meglio non posso avere. In fondo il calcio è fatto anche di stagioni, soprattutto per quelli che non hanno, come te, il talento e la fortuna per scrivere una meravigliosa e indimenticabile leggenda.