C’era una volta un ragazzino norvegese, nativo di Kristiansund, che militava nella sconosciuta e impronunciabile squadra della sua città natale: Clausenengen. Nasce come ala, ma sa disimpegnarsi molto bene anche come centravanti. Insomma, il fronte d’attacco è il cavallo di battaglia di mille sfide. Sempre vinte. E grazie all’immenso talento di un piccolo campione che, dai 17 ai 21 anni, realizza 115 reti in 109 incontri ufficiali, le serie minori, seppur in ritardo, diventano solo un lontano ricordo. E nonostante la scarsa visibilità del suo primo club, il Molde si innamora di lui e decide di acquistare un calciatore che, nonostante le tempistiche non perfette, farà la storia del calcio: Ole Gunnar Solskjaer.
Che non sarà ricordato per i suoi 31 centri in 42 incontri in patria, ma per il futuro glorioso che, lontano dalla Norvegia, lo vedrà protagonista di una delle favole più belle da raccontare. Nel 1996 c’è il Manchester United di Sir Alex Ferguson sulla strada dell’attaccante, spedito subito in una big del calcio inglese e mondiale. In Norvegia son diffidenti. “Non giocherà mai”, dicevano. Ed in fondo anche in Inghilterra non si aspettano un granché. Insomma, se fino ai ventitré anni l’apice della carriera si chiamava Molde, con rispetto parlando, non doveva essere così semplice credere nuovamente all’intuito di Manchester, dove la concorrenza non era così semplice da battere per l’ultimo arrivato: Eric Cantona ed Andy Cole. Ma Solskjaer non dispera, è lì per giocarsi le sue carte e si allena duramente per scalare la cima che ha davanti. La Premier ha inizio, il norvegese attende.
SUPER-RISERVA – É il 25 agosto del 1996, c’è sconforto all’Old Trafford. Lo United è sotto contro il Blackburn, non è servito a nulla il momentaneo pareggio di Jordi Cruyff, annullato dal nuovo vantaggio di Bohinen in apertura di ripresa. Manca meno di mezz’ora, Ferguson si gira verso la panchina e richiama il norvegese: “Alzati, tocca a te”
Ha la maglia numero venti, un sorriso evidente e quella voglia matta di far ricredere gli scettici. Minuto 64, l’arbitro Dunn dà il via libera per la sostituzione: esce l’allora ventiseienne difensore centrale May, entra Solskjaer. Tutti davanti, il Manchester non può perdere. Ci pensa lui, ci pensa il norvegese “senza speranze”. Passano sei minuti, c’è un lancio lungo dalle retrovie. Il pallone viene prolungato in avanti per l’inserimento di Solskjaer. Fiato sospeso, eccolo: è la sua occasione.
Il destro è potente, ma centrale e Flowers si oppone respingendo sui piedi dell’attaccante che al secondo tentativo non può fallire: gol e sfida salvata, finisce 2-2. Inizia la nuova carriera, sempre vincente, di Solskjaer. Sì, perché di pareggi come quelli ce ne saranno pochi. Lo United vola verso il titolo, anche grazie a quel fenomeno che parte quasi sempre dalla panchina e ne segna 18. Studiava il gioco dalla panchina, era letale a gara in corso, quando con gli avversari stanchi, non aveva difficoltà ad entrare in partita e punire la mancata lucidità dei suoi rivali. Ad oggi sarebbe la riserva che tutti gli allenatori vorrebbero, uno dei “cambi forzati” nell’arco dei novanta. Perché uno come lui decide le partite e tanto basta. É celebre per il poker rifilato al Nottingham in soli 12 minuti giocati. Mostruoso. Quella partita, poi, finì 8-1 per i Red Devils che nel 99′ strapparono la clamorosa finale di Champions del Camp Nou ai danni di un Bayern Monaco in vantaggio sino al 90′ e in lacrime al 93′, quando dopo il pari di Sheringham fu proprio Solskjaer a portare la coppa dalle grandi orecchie a Manchester.
SUBENTRANTE VINCENTE: DÉJA-VU A CARDIFF – Passano gli anni, il norvegese diventa tanto decisivo al punto da cercare di scucirsi di dosso l’etichetta di riserva lussuosa. Lui vuole essere un protagonista, sin dal calcio d’inizio. Yorke e Cole, a giugno partenti, scivolano in panchina nel 2001 e a far coppia con lui c’è Van Nisterlooy. La gioia dura un’annata, perché con l’arrivo di Scholes, Sir Alex rivede i suoi piani tattici. E Solskjaer parte ancora più spesso dalle retrovie, tradotte in panchina. Almeno fino al duro infortunio di Beckham, che riporta il classe 73′ tra i titolari. Cambia il ruolo, adesso è un’ala pura in cerca dell’ultimo passaggio per il compagno. Gli assist non si fanno mancare mai, così come i gol, arrivati con estrema puntualità.
C’è addirittura spazio per la fascia di capitano. La carriera però è tutta in salita, gli infortuni iniziano a colpire le ginocchia con regolarità. Se poi in squadra arrivano talenti del calibro di Wayne Rooney e Cristiano Ronaldo, la vita si fa dura. E così gli undici anni a Manchester si chiudono così come erano iniziati: con il ruolo di super-riserva pronta a colpire e segnare (28 reti realizzate da subentrante, è record), per incantare un Old Trafford che dal 25 agosto di quel lontano 1996 ha fatto scoccare una magia speciale con quell’indimenticabile numero venti che oggi subentra ancora, da allenatore. Nel Cardiff, dove servirà una doppia impresa: la prima riguarda il campo, dove il margine di vantaggio sulla Championship è ancora di un punto. La seconda è indirizzata al pubblico, che non ha digerito la scelta del presidente Tin di esonerare il tecnico Malky Mackay, artefice della risalita in Premier.
Insomma, è un déjà-vu: tutto come una volta, come il 1996. Oggi Gunnar Solskjaer, inondato di scetticismo, è pronto all’ennesimo miracolo da subentrante. Sempre dalla panchina. Questa volta per rimanerci.