Era il 1985 quando sulla copertina del National Geographic apparve il ritratto di una giovane ragazza afghana dai magnetici occhi verdi. Uno sguardo diretto e fiero che subito fece il giro del mondo, colpendo in profondità per lo spessore drammatico celato dietro quell’espressione così intensa. Gli occhi spalancati di una bambina che ha vissuto sulla propria pelle il calvario e la tragedia collettiva che porta con sè la guerra, profuga costretta ad abbandonare la sua terra, impaurita ed anche un po’ infastidita da quello straniero che l’ha scovata nel mare di tende del campo di Nasir Bagh chiedendole di poterla fotografare.
Steve McCurry l’aveva scattata un’anno prima quella foto. Da fotoreporter si trovava in Pakistan per documentare le condizioni del popolo afghano distrutto dai bombardamenti russi, decimato dagli attacchi aerei che imponevano ai sopravvissuti di dividersi per scappare da morte certa. “Non pensavo che la fotografia della ragazza sarebbe stata diversa da qualsiasi altra cosa che ho scattato quel giorno“, racconta il fotografo ripensando a quel mattino in cui dentro il tendone della scuola del campo incrociò il volto della bambina. Nessuno le aveva mai fatto una richiesta del genere, ma McCurry riuscì con delicatezza a convicerla, trasformandola incosapevolmente in una delle icone fotografiche più conosciute.
Nonostante nessuno della troupe le avesse chiesto il nome, nel cuore e negli occhi di tutti la “Ragazza afghana” non si trasformò mai in un’ombra invisibile ma rimase un’immagine inalterata nel tempo, così carica di emozioni da non poter essere dimenticata. Come la curiosità intorno alla sua identità, che non ha mai abbandonato Steve McCurry fino al 2002 quando, sempre insieme a National Geographic, decise di tornare in quello stato remoto per cercarla e immortalare di nuovo i decisi occhi verdi dell’allora fanciulla.
Un’impresa difficile, affidata all’istinto e all’aiuto delle nuove tecnologie. Un viaggio appassionante tra Pakistan e Afghanistan racchiuso nel documentario “Search for the afghan girl” che testimonia l’operazione di ricerca popolata da svariati buchi nell’acqua, fino alla conoscenza con un uomo che aveva vissuto con lei da bambino e sapeva dove trovarla.
Finalmente l’incontro, in un villaggio tra le montagne di Tora Bora. Il suo nome è Sharbat Gula, gioventù consumata da una vita tormentata ma sguardo pieno di luce, brillante come nel 1984. La forza guerriera della sua tribù, i Pashtum, le ha permesso di rimanere in vita attraverso lunghissimi anni senza pace, tornare nella sua nazione e costruirsi una famiglia. Come la maggior parte delle donne afghane conduce la propria esistenza nel rispetto delle tradizioni culturali rigorose: le donne devono sparire in pubblico, indossare il burka per proteggersi dagli sguardi degli altri uomini – E’ una cosa bella da indossare, non una maledizione – e sorridere solo con il proprio marito.
Niente più foto da allora, nessuna intervista. La prima ed unica proprio con Steve McCurry per National Geographic nella quale ha raccontato la sua vita, la sua giornata tipo e qualche piccola riflessione sulle condizioni del suo paese. Infine di nuovo alcuni scatti, uno in particolare nella stessa posa della celebre fotografia. Nessun sorriso, apparente staticità ma sguardo che non tradisce, carico di determinazione, di rabbia e spirito combattivo.
Da quella riunione tanto auspicata con la giovane divenuta una donna, la National Geographic ha fondato l’associazione benefica “Afghan Children’s Fund” che si occupa di garantire educazione completa a tutti i giovanissimi afghani, puntando alla maggiore emancipazione soprattutto per le femmine.