È ufficiale, Hollywood ha un rapporto speciale con gli anni ’70. Quella che è stata l’epoca della nascita della New Hollywood, coi primi passi dei vari Scorsese, Coppola, Eastwood, Scott e Malick, negli ultimi anni sta rientrando prepotentemente nel cuore della produzione cinematografica a stelle e strisce, con una serie di revival che consentono di assaporarne nuovamente le mode, le atmosfere, i miti. Così, dopo l’Argo di Affleck, arriva il tanto atteso American Hustle di David O. Russell, candidato ai Golden Globes e non privo di chance anche per i prossimi Oscar.
Basato sulla sceneggiatura American Bullshit, scritta da Eric Warren Singer (presente nella blacklist 2010 dei migliori copioni non prodotti), American Hustle mette in scena l’operazione Abscam, realmente effettuata dall’FBI tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta. La storia è quella di Irving Rosenfeld/Christian Bale, che, in collaborazione con la socia ( e amante) Sydney Prosser/Amy Adams, fa fortuna perpetrando truffe ai danni di ignari clienti che sperano di vedere moltiplicato il proprio denaro anticipato. La situazione della coppia però non è delle migliori: intanto perché Irving è sposato con l’instabile Rosalyn (Jennifer Lawrence), poi perché l’agente sotto copertura Richie DiMaso (Bradley Cooper), cogliendoli sul fatto (e invaghitosi di Sydney), li costringe a collaborare con l’FBI, coinvolgendoli in un rischiosissimo piano che mira a distruggere la corruzione su cui si fondano i poteri forti del New Jersey e i suoi legami sotterranei fra mafia e politica. Irving nel frattempo stringerà amicizia con Carmine Polito (Jeremy Renner), sindaco di Camden, nonché figura centrale all’interno dell’intricata vicenda.
A dispetto però della base storica, l’approccio adottato da Russell elude il realismo, favorendo piuttosto la spettacolarizzazione dell’intero impianto narrativo, dalla magistrale scenografia al trucco e ai costumi, passando per un copione così ricco di dialoghi sopra le righe che a tratti sembra di esser di fronte ad un Allen d’annata. Uno dei punti di forza di American Hustle sta inoltre nella colonna sonora, invadente sì, ma per una volta in maniera pertinente e piacevole: Russell ripropone classici dell’epoca, da Delilah di Tom Jones a It’s de-lovely di Ella Fitzgerald, passando per l’intermezzo discomusic (protagonisti Cooper e la Adams) con I feel love di Donna Summer.
L’apparenza inganna recita il sottotitolo italiano, come ad evidenziare il castello di menzogne sui cui si basa la vicenda. American Hustle è in effetti costruito come una partita a poker, in cui alla fine si riconoscono vincitori e vinti. Ma appunto, solo alla fine, dopo aver assistito ad un enorme bluff lungo oltre due ore.
Non solo hustle però, l’opera di Russell convince sia nel generale che nel particolare: non ripetendo le incertezze narrative de Il lato positivo, il regista newyorkese costruisce un’opera di caratura elevata sotto tutti i punti di vista. American Hustle è un film che sa vivere di momenti (uno dei più potenti è guarda caso quando entra in scena Robert De Niro, sempre il migliore quando fa il mafioso) ma che al tempo stesso restituisce sempre l’impressione di assistere ad un lavoro solido ed omogeneo, privo di tempi morti.
La sceneggiatura di Singer aiuta, così come la performance di livello di tutto il cast, dallo stempiato Bale, tutto genio e sregolatezza, al nevrotico e bellissimo personaggio di Cooper. E ancora dall’ambigua doppiogiochista Amy Adams alla bellezza accecante di Jennifer Lawrence: quest’ultima, come Sharon Stone in Casino, entrando in scena in punta di piedi, diventa pian piano la mina vagante della vicenda, fungendo da collante e da bomba ad orolgeria al tempo stesso. La sua ascesa da protagonista vede il suo apice nell’esplosione di femminilità sulle note di Live and let die.
Debitore nei confronti dello stile scorsesiano quando si mostra la struttura del piano criminale (la voce fuoricampo, i piani sequenza), David O. Russell, dopo il mezzo passo falso con Il Lato positivo, dimostra tuttavia ancora una volta un’impronta personale, che si esprime con più forza nella capacità di amalgamare al meglio le risorse, attoriali e narrative (leggi sceneggiatura), a sua disposizione.
Il punto è che con un cast tremendamente hot da gestire ed un genere su cui si è già detto molto, forse troppo, si rischiava di fare un enorme buco nell’acqua, di partorire una sterile parata di stelle. Ma così non è stato.
E pur essendo lontani dal capolavoro, siamo certamente di fronte ad un film di qualità, fatto con tecnica e cuore (e soldi, che non guastano mai).
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