Nirbhaya diventa il simbolo delle donne indiane nella lotta allo stupro

I am Nirbhaya. I know no fear. And I will stop you from stopping me to live my life the way I want.”

Queste le toccanti parole nel filmato prodotto da Video Volunteers, l’organizzazione non governativa che promuove la partecipazione dei cittadini a sostegno delle comunità più povere del mondo. Queste le parole simbolicamente pronunciate da Nirbhaya, la ragazza ventitreenne, che poco più di un anno fa perse la vita su un autobus, stuprata da quattro uomini.

Jyoti Singh era il reale nome della vittima, poi ribattezzata Nirbhaya, che in indi ha il forte significato di “impavida”. Impavida esattamente come è stata la protesta, perpetratasi nell’ultimo anno, contro la violenza sulle donne, la quale inizia a produrre i suoi frutti.

Frutti importanti, come un sistema processuale più rapido, che ha portato, lo scorso settembre, alla condanna a morte dei quattro autori della violenza e conseguente morte della fanciulla.

E una volta posta l’attenzione su un fenomeno agghiacciante come quello della violenza sulle donne, non si può non analizzarlo statisticamente. Dopo un anno dalla notizia dell’omicidio che ha fatto il giro del mondo, infatti, il numero delle denunce per stupro è raddoppiato e, come se non bastasse, quello delle denunce per molestie è quadruplicato. In media una donna indiana viene violentata ogni ventidue minuti. Il tasso delle condanne per stupro si erge al 24,2% sul totale. Dati che non comprendono, peraltro, le zone periferiche e le comunità più emarginate.

Uno scenario raccapricciante per qualunque essere pensante. Uno scenario che sembra non poter lasciare alcun posto alla speranza di un futuro in cui, in determinate culture, donne e uomini possano avere pari diritti e pari dignità. Sostanziali.

Un barlume di speranza lo accende però la differente lettura del dato statistico: l’aumento delle denunce rappresenta si il reale e riprovevole fenomeno, ma anche la maggiore libertà che, dopo la protesta, le donne sentono di avere nel dar voce ad una richiesta legittima di tutela. Una libertà questa, ancora purtroppo non garantita e sostenuta sufficientemente, dal momento che non trova riscontri neanche nelle forze di Polizia, che spesso si rifiutano di registrare i reati denunciati.

Una vita vissuta nell’ombra, quella delle donne indiane, un’esistenza vissuta nella paura di mostrarsi e divenire un vulnerabile oggetto. Perché è la stessa cultura che concepisce la donna in questo modo: un essere che deve camminare, pulire, accudire i figli, portare una dote, tutto, tranne che pensare.

E tutto questo non cesserà, fino a quando non sarà riconosciuto alla donna il ruolo che le spetta, il ruolo che potrà consentirle di decidere come, dove e con chi spendere la sua vita.

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