Alluvione in Sardegna, un mese dopo

Un mese fa sulla Sardegna si abbatteva un’ondata di maltempo senza precedenti. In 24 ore cadeva una quantità di acqua che abitualmente cade in sei mesi. Intere zone venivano invase dall’acqua dei fiumi straripati. Sotto l’acqua e il fango perdevano la vita diciassette persone.

Nelle ore successive al disastro si è assistito all’ormai classico rimpallo di responsabilità fra protezione civile e amministratori locali. Questi denunciano di non essere stati avvertiti del grado di pericolosità di quanto stava per accadere. Ma la protezione civile risponde che non è vero: i sindaci erano stati avvertiti, ma non si sono mossi.

La magistratura ha, ad oggi, accertato la sussistenza di varie criticità individuabili nella cementificazione selvaggia di zone di territorio a elevato rischio idrogeologico e la mancata manutenzione dei canali e dei corsi d’acqua che attraversano le città.

Nel frattempo, si sta cercando, con tutte le forze, di tornare alla normalità. Nelle strade, ormai liberate dal fango, si trovano ancora tante auto rese inutilizzabili dal fango. Sui balconi e nei giardini delle villette è possibile, tuttora, scorgere materassi e coperte ad asciugare al sole o, addirittura, elettrodomestici rovinati in attesa di essere sostituiti da nuovi. Persino i piatti e le pentole si asciugano al sole.

La triste verità è che ad un mese dall’alluvione sembra essere calato il silenzio. Ad Olbia, la città più colpita con le sue tredici vittime, tanti gli eventi organizzati per rompere questo muro di gomma ,che sembra essersi creato tra i cittadini e le istituzioni.

Nei pressi della scuola più colpita dall’alluvione, quella di S. Maria, sono state lette alcune letterine scritte dagli alunni della scuola primaria Galileo Galilei dell’Aquila, in segno di solidarietà tra due città distrutte da calamità naturali. Hanno espresso il desiderio di un’Italia fatta meglio, costruita meglio, per non vedere più le stesse cose e ascoltare gli stessi drammi.

Ieri si è svolta una marcia, a cui hanno partecipato tanti cittadini olbiesi, per non dimenticare le vittime dell’alluvione. Hanno sfilato portando una rosa bianca, simbolo dell’innocenza. Lungo il percorso, con striscioni e cartelloni, si è palesata la rabbia soprattutto verso le istituzioni comunali, a cui vengono attribuite le principali responsabilità. Attualmente, 109 famiglie vivono ancora in albergo e non sanno ancora quando potranno ritornare nelle loro abitazioni.

La politica ha fatto dietrofront e si è rimangiata le promesse. Nella legge di stabilità non c’è nulla delle promesse fatte dal presidente del Consiglio e dai politici venuti qui ad Olbia, ai quali chiedevamo una deroga sul patto di stabilità per poter usare le nostre risorse“, si è difeso il sindaco di Olbia, Gianni Giovannelli. “Abbiamo 50 milioni di euro in cassa e vorremmo utilizzarli per fare interventi concreti per mitigare il rischio idrogeologico. Se non avverrà ci saranno altri sindaci in Italia che piangeranno i loro morti, ci saranno altre polemiche, altri scaricabarile. Il Parlamento ha tutti gli strumenti per decretare una deroga al patto di stabilità per la mitigazione del rischio idrogeologico e per la messa a norma degli edifici scolastici. Se non sarà fatto questo, ci sarà una responsabilità politica enorme che ricadrà sui nostri parlamentari e sul governo“.

Ad Arzachena, dove ha perso la vita un’intera famiglia italo-brasiliana, ieri sono stati piantati, dopo una marcia pacifica per le strade del paese, quattro carrubi in loro memoria nei pressi dell’auditorium comunale. I cittadini hanno posato una lapide con incise le parole del poeta campano Franco Arminio: “Quando si muore insieme significa che si è vissuti insieme“.

E poi c’è un eroe. A Bitti, nel Nuorese, Marco Farre ha deciso di non arrendersi: da trenta giorni passa le giornata in campagna, controllando palmo a palmo le rive del Posada, il fiume che quel maledetto pomeriggio gli ha strappato via il padre. Erano insieme quando il torrente è diventato gigante e lui è riuscito a salvarsi finendo su un cespuglio di rovi. Il padre Giovanni, invece, non ha avuto il tempo di aggrapparsi e non si sa neppure dove sia finito.

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