Quanto si è disposti a pagare un HR Director affinchè contribuisca alla crescita dell’azienda dove opera?
Tanto, a quanto risulta dalla ricerca condotta da Towers Watson in collaborazione con l’associazione direttori risorse umane Gidp/Hrda su un campione di 66 aziende italiane (fatturato medio di 138 milioni di euro, con 400 dipendenti, realtà quindi più strutturate rispetto alla media del mercato nazionale).
Si parla di retribuzioni medie annue di 120K€, seconde solo a quelle delle figure commerciali, questo a sfatare il pensiero comune di una categoria professionale “dimenticata”.
Benefit quali la macchina aziendale, polizze assicurative, retribuzione variable su obettivi annuali e triennali, tutto questo a testimoniare la volontà di creare un rapporto di fidelizzazione a lungo termine, segno indiscutibile della dimensione strategica rappresentata da questa figura.
Ma cosa si chiede a questi professionisti in cambio di tale trattamento?
Di diventare il leader della trasformazione, del cambiamento.
Ma quanti di questi professionisti delle risorse umane hanno le competenze, il modo ed il tempo per agire in tal senso?
Sui classici quattro quadranti delle responsabilità di ruolo dell’HR secondo Ulrich (Amministrativa, Sindacale, Partnership Strategica, Sviluppo/cambiamento) pesano le attività della quotidianità del far fronte ai problemi contingenti delle negoziazioni sindacali sempre più faticose e dolorose, per quanto necessarie, l’operatività della progettazione e pianificazione delle azioni di mobilità e di Cassa integrazione, la gestione dei costi del personale, prima o seconda voce di costo di tutte i bilanci aziendali. Costo, non investimento.
L’HR Director viene stretto da questa morsa operativa e poco tempo ha da dedicare alle attività a valore aggiunto quali l’affiancamento del Top Management nelle decisioni strategiche, poco tempo per ascoltare i dipendenti (clienti!), poco tempo per parlare con loro.
In aiuto arriva l’outsourcing, ovvero l’esternalizzazione di alcune attività prima gestite all’interno; tendenza misurata in crescita che porterà ad affidare all’esterno ben il 30% delle attività HR nei prossimi 3 anni.
Questo è un dato fornito dalla ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, effettuata su oltre 100 direttori HR italiani.
Da molto tempo ormai l’outsourcing riguarda la parte amministrativa (budget del personale, amministrazione) alla quale si stanno affiancando altre attività più strategiche come la selezione del personale, la valutazione delle performance e la formazione, ma si prevedono grossi aumenti dell’outsoucing anche per la HR Business Intelligence e la comunicazione interna.
L’analisi evidenzia inoltre un’importante tendenza: le aziende definite “leader della trasformazione” fanno un maggior ricorso a partner esterni rispetto alle altre aziende non solo per le attività amministrative, ma anche per le attività di supporto ai manager (ricerca e selezione, coaching)e sviluppo delle persone (formazione e valutazione delle performance), liberando così del tempo per concentrarsi su quelle attività a valore che servono per migliorare la competitività in azienda attraverso un uso ottimale delle risorse umane.
Ma liberare tempo per quanto sia importante non basta; bisogna costruire i ruoli e le competenze per interpretare l’HR in maniera diversa.
È questo l’altro messaggio forte che arriva dalle analisi dell’Osservatorio “in molti casi la direzione HR deve ancora trovare la determinazione a cambiare e superare compiti prevalentemente operativi” spiega il responsabile scientifico dell’Osservatorio Mariano Corso.
Le principali sfide da affrontare riguardano le competenze per supportare i processi di business (67% degli intervistati), per favorire l’innovazione e il cambiamento organizzativo (55%) e per affiancare il top management nelle decisioni strategiche (38%).
L’HR Journey
, così come viene definito nell’analisi, è un percorso evolutivo che passa attraverso 4 principali ambiti di trasformazione: innovazione digitale, ruoli e competenze, scelte di sourcing, modelli di organizzazione del lavoro.
E’ un viaggio interessante ma nello stesso tempo faticoso e trasformante che obbliga gli HR manager ad affrontare nuovi modi di lavorare, uscire dai loro uffici 1.0 dove si parla la lingua rassicurante di sempre e confrontarsi con la lingua del business, con il workspace 2.0 realmente aperto e social dove la conoscenza ha valore solo se condivisa.
Per non parlare dell’abbandono dell’“unico credo” di tanti noi HR: l’organizzazione gerarchica e basata sul controllo a favore di modelli sempre più responsabilizzanti e basati sull’empowerment delle persone, fino ad arrivare al vero e proprio smart working, svincolato da orari e luoghi, dove la persona ha la piena responsabilità dei risultati, dove il capo diventa sempre più “trasparente” tanto da essere “invisibile”.
E penso al mio primo capo, Direttore del Personale in un’ austera città al Nord, che passava le sue mattinate fuori dal portone, passeggiando dalle 8 alle 9.15 nel viale adiacente all’ingresso dipendenti, controllando gli arrivi degli impiegati affannati per il ritardo del tram n°10 che arrivava dall’altra parte della città o per il parcheggio in ora di mercato rionale. Cosa direbbe di me, adesso, che lavoro da casa.