Abolizione finanziamento pubblico ai partiti e Legge elettorale, improvvisa accelerazione di due dei più spinosi argomenti che infiammano la dialettica politica. In pratica una situazione di parità nella partita tra Governo Letta e neo-segretario Pd Matteo Renzi: 1 a 1, palla al centro.
È probabilmente questa la sintesi migliore per due argomenti “sensibili”. Esattamente alle 11 di oggi, la notizia che potrebbe mutare i destini di molte forze politiche: abolito il finanziamento pubblico ai partiti. E l’annuncio non poteva che essere diffuso attraverso i social network, Twitter in primis. Un diluvio di cinguettii quasi a volersi intestare tutti la primogenitura della decisione.
Ha iniziato il premier, Enrico Letta, poco dopo le 9, bruciando tutti: “Avevo promesso ad aprile l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti entro l’anno. L’ho confermato mercoledì. Ora in Cdm manteniamo la promessa”. Al vice-premier Angelino Alfano non è restato che lanciare il tweet non appena l’atto è stato effettivamente approvato poco dopo le 11, “In CdM abbiamo appena abolito il finanziamento pubblico ai partiti. Per decreto. Impegno mantenuto”. Seguito a ruota dal ministro Gaetano Quagliariello, “È una è andata: abolito il finanziamento pubblico ai partiti! Ora avanti con riduzione del numero dei parlamentari. Ecco i fatti”.
Una decisione per certi versi storica e che evita l’ennesima invasione di campo da parte della Consulta. A fine novembre, infatti, il Procuratore De Dominicis della Corte dei Conti del Lazio, che indaga sulla vicenda Lusi-Margherita, ha inviato alla Corte Costituzionale tutta la normativa che ha ripristinato il finanziamento ai partiti dal 1997 ad oggi, per giudicare della sua legittimità costituzionale. Molto probabilmente la Consulta si esprimerà per la sua incostituzionalità, visto e considerato il risultato del referendum del ’93 – votato dalla stragrande maggioranza dei cittadini – che aveva abolito il finanziamento ai partiti. Il Governo, con la decisione odierna, prova a voltare pagina. Ma non è detto che non ci siano strascichi per il passato. Tutto dipenderà dalla Corte Costituzionale.
In meno di 24 ore, l’Esecutivo ha pareggiato il gol che Matteo Renzi aveva messo a segno nel tardo pomeriggio di giovedì, quando – memori del più noto Ratto delle Sabine – si è assistito al “Ratto della Legge elettorale”. I Presidenti dei due rami del Parlamento, Laura Boldrini e Pietro Grasso infatti, hanno preso atto della sussistenza di una maggioranza numerica di senatori e deputati – alla Camera anche il Gruppo Fratelli d’Italia – favorevoli al superamento del principio della priorità temporale, in forza del quale l’iter sarebbe dovuto proseguire al Senato. Uscendo dal politichese, si è deciso di trasferire la discussione sulla nuova Legge elettorale dal Senato alla Camera. Palazzo Madama è stato, parzialmente, risarcito con il mantenimento della discussione per la riduzione del numero dei parlamentari e l’abolizione del bicameralismo perfetto o paritario.
Ma non si è trattato di un passaggio indolore. Una maggioranza della I commissione del Senato formata da Pd, M5S e Sel ha detto sì allo spostamento della legge elettorale alla Camera. Maggioranza molto diversa, dunque, da quella che – solo mercoledì scorso – aveva ribadito la fiducia al Governo, costituita da Pd-Ncd-Monti-Per l’Italia. Contro il rinvio si sono espressi tutti gli altri gruppi: Ncd, FI, Sc, PI, Lega, Gal. In particolare, il Nuovo Centrodestra ha tuonato contro questa decisione, paventando una possibile crisi di governo qualora alla Camera si decidesse di approvare una Riforma elettorale con una maggioranza diversa da quella che sostiene l’Esecutivo.
Il neo segretario del Partito Democratico, che sarà ufficialmente incoronato domenica, aveva promesso un iter veloce per la Legge elettorale e così è stato. Pazienza, poi, se subito dopo la fiducia all’Esecutivo si sono registrate immediate fibrillazioni. In fondo, la finestra elettorale per la primavera del 2014 non si è ancora chiusa e, giochi e strategie, sono ancora tutti in campo.