“Lo sport ha il potere di cambiare il mondo, di unire la gente. Parla una lingua che tutti capiscono. Può creare la speranza laddove prima c’era solo disperazione“. Parole impresse nella memoria di tutti, dense di significato, pesanti come macigni. Perché Nelson Mandela nella sua vita ha combattuto tanto, mostrando a tutto il mondo come si deve e si può combattere. E lo ha fatto anche attraverso lo sport, soprattutto nello sport. Ha portato le sue idee a compimento, sacrificando la sua vita per ben ventisette anni in una cella di un metro e 90, di cui diciotto a Robben Island, un’isoletta sperduta davanti a Cape Town, la capitale del Sudafrica. Il suo Sudafrica, che lo aveva ripudiato e segregato.
Madiba non conosceva lo sport, non lo aveva praticato in gioventù. Aveva trascorso la sua vita prima del carcere nelle aule dei tribunali. I tribunali di un paese in cui la giustizia cambiava a seconda del colore della pelle dei suoi cittadini. Ma aveva iniziato a pensare di sport in quei lunghissimi e interminabili anni rinchiuso nella sua cella, con il numero n° 46664 cucito addosso. Aveva pensato che una semplice palla di stracci e cartone avrebbe alleviato il dolore che opprimeva le vite dei suoi compagni. Lottò ed ottenne il permesso di creare una lega formata da alcuni team che nel fine settimana dava vita ai dei veri e propri match. Si chiamava Makana Football Association, e dal 1966 al 1973 organizzò i campionati di calcio dei prigionieri. Perché la minaccia degli anni con le catene ai piedi lo trovava senza paura.
E continuò ad amarlo lo sport, anche da uomo libero. Ne capii a fondo le potenzialità nel 1995, quando il suo Sudafrica ospitò la Coppa del Mondo di Rugby. Il rugby sudafricano era, allora, lo sport esclusivo degli afrikaner, ossia i cittadini sudafricani con la pelle bianca. Ebbe l’intuito e la lungimiranza politica di consegnare all’evento un messaggio universale. La sua foto all’Ellis Park di Johannesburg con la maglia numero 6, consegnata dal capitano bianco François Peinaar, fece capire al mondo che il Sudafrica aveva messo alle spalle il suo passato di razzismo e discriminazione. E insistette nel tempo per considerare quella nazionale, gli Springboks, il simbolo del paese contro l’apartheid.
Fino al 2010, quando da solo riuscì a vincere il Mondiale di calcio, assegnato per la prima volta all’Africa, alla sua nazione soltanto per la sua persona, per quello che lui rappresentava per il mondo intero. Ci aveva messo la faccia, aveva dato garanzie personali. E aveva fatto di tutto per esserci, con quel giro di campo il giorno della finale dell’11 luglio, in condizioni fisiche precarie, con tutta la forza e la tenacia che lo hanno sempre contraddistinto.
Oggi il mondo dello sport, gli rende onore. Piange per lui. Piange per aver perso uno dei suoi simboli, uno dei suoi condottieri. Ruud Gullit nel 1987 gli aveva dedicato il suo Pallone d’oro, David Beckham e John McEnroe andarono a trovarlo in più di un’occasione, Pelé ed Muhammad Alì lo omaggiarono personalmente. Perché Mandela, prima di essere un uomo è stato uno sportivo e lo sport saprà sicuramente riservargli per sempre un posto privilegiato nella sua storia.