Il governo Letta ha annunciato ieri la cessione delle quote di aziende a controllo statale. L’operazione dovrebbe generare 10-12 miliardi di entrate addizionali per le casse pubbliche, che saranno impiegate in parte per ridurre il debito sovrano nel 2014 e in parte per ricapitalizzare la Cassa Depositi e Prestiti.
In particolare dalla cessione del 3% di Eni dovrebbero arrivare circa 2 miliardi.
Il ministro dell’Economia Saccomanni, nel corso di una conferenza stampa a palazzo Chigi, ha spiegato che “la nostra quota di possesso del capitale dell’Eni per effetto del buy back risulterà cresciuta fino al 33%, così possiamo cedere il 3%, che ci consente di mobilizzare 2 miliardi senza scendere sotto il 30%“, quindi senza dover perdere il controllo da parte dello Stato.
Nel complesso saranno interessate dall’operazione otto società: Eni, Stm e Enav per le partecipazioni dirette e Sace, Fincantieri, Cdp Reti, Tag e Grandi Stazioni (Fs) per quelle indirette.
I proventi di quello che Letta ha definito il “primo round” di privatizzazioni dovrebbero convincere Bruxelles a lasciar impiegare all’Italia una quota di 3 miliardi di euro in investimenti senza includerli nel limite di budget annuale. L’Unione europea, infatti, dopo aver bocciato la Legge di Stabilità, continua a fare pressioni per tagliare il debito, attualmente il secondo più grande in Europa dopo la Grecia, al 130% del PIL, prima di poter dare il via libera agli investimenti.
Non è la prima volta che l’Italia utilizza un piano di privatizzazione delle compagnie di bandiera per far fronte a un momento di particolare crisi economica. Accadde già negli anni ’90. La differenza oggi sta nel fatto che le imprese italiane, indebolite dalla crisi economica e dalle condizioni creditizie difficili, faranno fatica ad aggiudicarsi le quote delle migliori società a controllo principalmente statale, come Eni, Fincantieri, Fs e probabilmente in un prossimo futuro anche Poste.
Altri due rischi però si potrebbero nascondere dietro questa decisione del governo. Innanzitutto, secondo il Wall Street Journal, gli investitori privati potrebbero essere riluttanti ad assumere partecipazioni in società di cui il governo intende mantenere il controllo di fatto, nominandone i dirigenti, come accadrebbe con l’Eni.
E non bisogna dimenticare che in questo modo lo Stato rinuncia a quei cespiti che ancora assicurano reddito come i dividendi puntualmente pagati da Eni. Se poi si pensa che a settembre 2013 l’utile netto di Eni è stato di 4.122 milioni di euro, un rapido calcolo permette di capire che l’operazione potrebbe non essere conveniente nel medio periodo.
Come ha osservato qualche tempo fa Romano Prodi dalle colonne del Messaggero, “è evidente che se un’azienda viene ceduta all’estero i profitti usciranno dall’Italia”. Il ministro dell’Economia, consapevole dei precedenti casi di Telecom e Alitalia, ha voluto tranquillizzare gli italiani, sottolineando che la cessione della quota di Eni non comporterà la perdita del controllo della società, ma nel caso di Sace e Grandi Stazioni le dismissioni arriveranno fino al 60% della quota, mentre per Enav e Fincantieri la cessione sarà del 40%.
Letta sostiene che le privatizzazioni saranno “un passo importante” nella ripresa dell’Italia. Ma voci autorevoli evidenziano il rischio per lo Stato di perdere anche gli istituti di credito più importanti. L’Asset Quality Review, ossia la verifica approfondita dei bilanci delle società finanziarie dell’area euro, partita a novembre, potrebbe essere secondo alcuni una “occasione per reclamare la privatizzazione delle banche“, come già fatto finora dall’attuale presidente della Bce Mario Draghi.
E dal punto di vista puramente economico, da più parti si fa notare che, come già avvenuto in passato, il tentativo di abbattere il debito attraverso la cessione di attività pubbliche potrebbe rivelarsi fallimentare.
[foto da linkiesta.it]