In un secolo come questo, figlio del monolinguismo nazionalista e fascista del precedente, e che vede riaffermarsi la tendenza al bilinguismo, grazie a scelte politiche, globalizzazione e cosmopolitismo, numerosi sono gli studi sul linguaggio e sull’influenza che questo ha sulla popolazione.
Frutto di uno di questi è la tesi del “Multilinguismo Camaleontico“, pubblicato su The Economist, secondo cui le persone modificherebbero inconsciamente il proprio comportamento, a seconda del linguaggio parlato. Tesi che trova riscontro nel fatto che un perfetto bilinguismo è inesistente, dal momento che ognuno ha necessariamente una lingua più forte (lingua madre) rispetto alle altre.
Un individuo che comunica attraverso la propria lingua madre, apparirà più sicuro, estroverso ed abile nelle scelte lessicali, rispetto ad uno che parla, seppur agevolmente, una lingua straniera. Il pensiero è più veloce, le sfumature delle espressioni, più argute ne consapevoli.
Il linguaggio tuttavia, secondo questa tesi, non influenzerebbe solo in questo modo il comportamento del soggetto. Tratti comuni della popolazione, della storia e della cultura di una nazione, sarebbero veicolati attraverso il linguaggi, attribuendo a chi parla le caratteristiche tipiche della popolazione che utilizza quel determinato idioma. Un esempio, annoverato su “Jhonson” (dal nome dell’autore del dizionario inglese, Samuel Jhonson), il blog del linguaggio di The Economist, è quello di Timothy Doner. Questo adolescente, che alla vista appare un ordinario American-boy, parlerebbe non una, non due, ma ben venti lingue differenti. Nell’intervista per il blog, è definito “spavaldo come un francese e accigliato come un russo”, a sottolineare l’influenza del linguaggio anche sulla comunicazione non verbale.
In questa direzione già vi era stata l’intuizione del linguista statunitense Benjamin Lee Whorf, che individuò un rapporto tra idioma e visione del mondo, venuto alla storia come “Whorfianism“.
E come, da una parte, espresso nella teoria, i soggetti poliglotti potrebbero risultare “camaleontici”, dall’altra questi individui si mostrerebbero avvantaggiati nelle situazioni di conflitto , in quanto capaci di prendere decisioni più velocemente, e meno soggetti al rischio di demenza. Proprio di questo parla l’articolo pubblicato su Neurology, che afferma, grazie ad una ricerca condotta dall’Institute of Medical Sciences di Hyderabard, che parlare una seconda lingua possa far tardare l’insorgere di tre tipi di demenza: su un campione di settecento persone, i poliglotti contraevano più tardi il morbo di Alzheimer, la demenza fronti temporale e la demenza vascolare.
Una tesi questa tanto curiosa, quanto facilmente riscontrabile nella realtà, che rende il multilinguismo l’opportunità di portare nelle proprie parole la storia, la cultura e le tendenze di una nazione.