Vittorio Sgarbi non è solo colui che in tv esprime le sue opinioni sovrastando tutti, ma è soprattutto un famoso e stimato critico d’arte. Proprio in questo ambito s’inserisce la sua ultima fatica letteraria “Il tesoro d’Italia” in cui Vittorio Sgarbi accompagna il lettore in un viaggio emozionante tra le opere più significative del Medio Evo italiano, un periodo particolarmente fecondo dell’arte in quanto ha fatto da apripista al fiorire delle meraviglie del Rinascimento.
Durante questo viaggio Sgarbi non si limita a decantare le opere più conosciute del Quattrocento, bensì porta al lettore la conoscenza di quelle opere semisconosciute ai più ma di uguale valore. Opere diffuse sull’intero territorio italiano, spesso oscure agli stessi abitanti del posto, capaci di riassumere l’intero cammino dell’arte italiana.
In questo lungo viaggio Vittorio Sgarbi, tappa per tappa, descrive la vita e le opere di ben quaranta artisti, presenti ed attivi in Italia dall’anno Mille al Trecento. La scelta di tali artisti non è stata casuale da parte del nostro critico d’arte, ma è stata meditata in modo tale da rappresentare l’evoluzione del linguaggio dell’arte che ha poi portato al Rinascimento.
Il lettore, sia esso appassionato d’arte o solo incuriosito, viene catturato da questo straordinario repertorio artistico, il tutto accompagnato da una serie di immagini e foto che rappresentano passo dopo passo la descrizione di Vittorio Sgarbi.
“Un libro di testo quindi – dichiara Vittorio Sgarbi – ma per quelli che sono usciti dalle scuole. Tre o forse cinque volumi, dipende solo da me, il piano editoriale prevede un’uscita l’anno“. Spiega inoltre che quest’opera punta ad arrivare fino al Barocco o addirittura a tutto il Novecento.
Interessante ed esplicativa è l’introduzione al testo: “C’è un’Italia protetta e remota a Morano Calabro, a Vairano, a Rocca Cilento, a Vatolla, a Giungano, a Torchiara, a Perdifumo, incontaminati presidi del Cilento. Poi ci sono le apparizioni. Come gli affreschi di Sant’Angelo in Formis, come il duomo di Anagni con il quale si apre il racconto pittorico di questo libro, anche se i primi segnali della lingua nuova, diretta, espressiva, sapida, sono nella scultura, a partire da Wiligelmo a Modena in parallelo con i primi vagiti della lingua italiana. Quei confini nei quali sono ristretti a coltivare i campi, cacciati dal Paradiso terrestre, Adamo ed Eva. Poco più tardi vedremo altri contadini affaticati, di mese in mese, nel Battistero dell’Antelami a Parma. Soltanto a Ferrara il lavoro sembrerà riservare una imprevista felicità. Il Maestro dei Mesi trasmette il piacere che ha provato estraendo fanciulli dalla pietra. Siamo nel 1230, in largo anticipo sul ritrovamento della vita nella pittura, prima ancora che in Toscana, nel cuore della Valle Padana, a Cremona, con il racconto delle storie di Sant’Agata di un maestro anonimo; non sarà un caso che la nuova lingua toscana in pittura si espanda fino a Padova con Giotto nella Cappella degli Scrovegni, e di lì in tutto il Nord. Siamo in apertura del Trecento, e diventa lingua universale quella che ha iniziato a parlare Giotto, ponendosi davanti le energie dei corpi e la loro azione…”