Strano mestiere quello dell’allenatore. Dall’ovazione della curva all’esonero, a volte, passa meno di un anno. Gli allenatori sono i precari per eccellenza e, non ingannino i loro lauti stipendi (quando parliamo di campionati professionistici, perché dalla Lega Pro in giù si tratta di esseri umani e professionisti sottopagati come noi), nessuno più di loro ha bisogno di un ambiente che li tutela, li asseconda, li lascia lavorare.
Già, l’ambiente. Ieri sono saltate altre due panchine. Quella di Sannino, a Verona sponda Chievo, e quella di Delio Rossi a Genova, sponda blucerchiata. Non mi soffermerei troppo su eventuali demeriti, semmai sottolineerei l’ottimo lavoro fatto lo scorso anno da Rossi e il risultato che ha decretato l’esonero di Sannino: un pareggio contro il Milan. Curioso che, con lo stesso risultato, Allegri abbia salvato la sua traballante panchina mentre al rampante (ormai ex) allenatore del Chievo non sia stato concesso nemmeno il derby del riscatto.
Preferisco soffermarmi sui nomi dei subentranti: Corini a Verona, Mihajlovic a Genova. Eccolo, l’ambiente. Corini, al Chievo, ha giocato, segnato, indossato la fascia di capitano, allenato. A proposito: qualcuno sa dirmi perché l’anno scorso, a fine stagione, gli fu dato il benservito? Miha conosce bene Genova. Le sue punizioni hanno fatto impazzire di gioia, più volte, la curva doriana. Sbloccare la sua situazione contrattuale con la Serbia non sembra semplicissimo e le ultime avventure di Sinisa, in panchina, non sono state esattamente trionfali. Ai mondiali ci andrà la Bosnia, tanto per dire lo smacco, e non la grande madre Serbia allenata proprio dal buon Mihailovic.
Eppure la Samp ha pensato a lui. Non a Zeman (che di Delio Rossi fu maestro riconosciuto) né al buon Edy Reja. E indovinate perché? Sapete cosa diranno i vertici societari in conferenza stampa? Che Sinisa conosce l’ambiente. Ci scommetto. In effetti è già un gran bel vantaggio essere accolti dall’ovazione della curva, dalla fiducia della città, da un rapporto più solido con la stessa società. Ne sa qualcosa, sempre restando a Genova, Gian Piero Gasperini. Lui ci ha provato all’Inter e qualche anno dopo ha avuto una grande opportunità di riscatto a Palermo (per due volte). Ma niente, buca. Poi torna in rossoblu e fa tre vittorie di fila. Una squadra che con Liverani sembrava condannata si riscatta, riprende un discorso interrotto tre anni fa, con giocatori diversi.
Come se il Gasp non fosse andato mai via. Sapete chi si considera maestro di Gasperini? Giovanni Galeone, un professore di calcio che ha costruito le sue fortune in una sola piazza, quella di Pescara. Dovrebbe esserci un suo monumento all’Adriatico così come, presto, ce ne sarà uno di Zeman allo Zaccheria. Ne sono sicuro. Senza scomodare Sir Alex Ferguson e i suoi 27 anni all’Old Trafford, preferirei tornare alle faccende di casa nostra. Nessuno più di Francesco Guidolin ha sposato la causa di Udine, tanto da rinunciare a qualsiasi altra tentazione, mentre a Palermo, evidentemente, l’ambiente non lo conosce ancora nessuno. Forse nemmeno Zamparini che, almeno a questo giro, sembra essersi affidato all’allenatore giusto: il troppo sottovalutato (parere personalissimo) Iachini.
Non mi sorprende il fatto che Donadoni (altro grandissimo professionista) non abbia dato il meglio di sé a Napoli. Introverso come pochi, meno che sul campo quando dribblava anche il portiere, pare che, nonostante le dichiarazioni di facciata, abbia patito non poco il suo status di lumbard a Napoli. Certo, la squadra che aveva tra le mani non era la corazzata di oggi, ma non è un caso che Roberto si trovi molto meglio nella più tranquilla Parma, molto più simile alla sua Bergamo. Forse non ha amato troppo Napoli neppure Walter Mazzarri, che passava le sue giornate libere nella tranquillità della sua villa piuttosto che visitare la città come fa Benitez, ma questo non gli ha impedito di fare un gran bel lavoro. Toscano di scoglio, livornese testardo come un mulo. E si vede.
Un’ultima osservazione su quello che, ad oggi, considero il miglior allenatore italiano per idee di gioco e intensità dei metodi. Antonio Conte fu “accolto” (eufemismo) a Bari come l’ultimo degli indesiderati. Veniva da una retrocessione ad Arezzo e la sua colpa era quella di essere nato a Lecce. Insomma, non proprio l’ambiente ideale per lavorare. Un anno dopo portò il Bari in A e lo stadio gli tributò un’ovazione. Lasciò per incompatibilità con la società ma, prima di approdare alla Juve, gli fu fatale l’esperienza a Bergamo. Si mise contro (non proprio a torto, dirà la storia) un certo Cristiano Doni. Errore imperdonabile, all’epoca. Andò via inseguito dagli ultras inferociti. Di certo, chi l’ha chiamato alla guida della Juve, ha capito che quella fu solo una parentesi sfortunata. E che alla Juventus Antonio Conte avrebbe trovato, finalmente, il suo ambiente. Avanti il prossimo, dove c’è casa c’è una panchina un po’ più serena. Almeno così pare.