Una vera e propria “secessione del Pomodoro”. Pomì Italia, un consorzio composto da oltre 300 aziende agricole collocate principalmente nelle province di Parma, Piacenza, Cremona e Mantova, che ha sempre fatto del made in Italy uno dei suoi punti di forza, si è sentita probabilmente minacciata dall’equazione pomodoro-veleno che sarebbe potuta balzare agli occhi dei consumatori di fronte alle ultime notizie che giungono dalla Terra dei Fuochi. Di qui l’idea: un bel pomodoro rosso, piazzato nel nord Italia e accompagnato dal claim “Solo da qui, solo Pomì“.
Prima un servizio della trasmissione televisiva “Le Iene”. A distanza di pochi giorni le dichiarazioni desecretate del collaboratore di giustizia Carmine Schiavone. Nelle ultime settimane il caso campano della Terra dei Fuochi è tornato all’attenzione dell’opinione pubblica in tutta la sua drammaticità.
Dopo aver indagato sulla situazione generale, l’inviata di Italia 1, Nadia Toffa, si è spinta oltre nell’analisi del problema derivante dall’occultamento di rifiuti tossici nei terreni delle zone del cosiddetto “Triangolo della morte”, tra Acerra, Nola e Marigliano. Ha fatto analizzare una pianta di pomodori prelevata da quei campi e il risultato è stato davvero sconcertante: grosse quantità di metalli pesanti, come piombo, cadmio e manganese, in grado di creare danni enormi nell’uomo se assunti in maniera così massiccia.
Anche le interviste agli agricoltori della zona, consci dell’inquinamento delle falde acquifere e delle condizioni del terreno, hanno fatto rabbrividire milioni di italiani.
Pochi giorni fa, inoltre, sono stati resi pubblici nuovi dettagli sul sistema del traffico illegale di rifiuti tossici, attraverso le dichiarazioni del pentito Schiavone, ex-cassiere dei Casalesi. E il dramma della Terra dei Fuochi è diventato ancora più evidente.
Fin qui la cronaca terribile di un ennesimo disastro ambientale italiano, che ha colpito e continua a colpire la salute di migliaia di persone che in quelle zone vivono. Su questa catastrofe però qualcuno ha ben pensato di costruire una campagna pubblicitaria che mirava a promuovere un prodotto, pur sempre italiano, ma di provenienza “ben più nobile”.
Al di là del gran clamore fatto sui social network, anche con proposte di boicottaggio del brand Pomì, bisogna seriamente interrogarsi su come sia possibile che un marchio che fa del “legame solido e diretto con il mondo agricolo e con il territorio” e di un prodotto “100 % di origine italiana” (cito testualmente dal sito web di Pomì) i propri valori e principali elementi di forza, possa poi, così semplicisticamente e anche un po’ goffamente, prendere le distanze dal resto del Paese e dichiarare una sorta di “secessione del pomodoro”.
Sui mercati di oggi, già messi a dura prova dalla crisi, è necessario certamente muoversi con velocità per rassicurare i propri consumatori sulla sicurezza e la certificazione dei propri prodotti, specie quando si parla di salute. E sarebbe anche giusto sapere in quali aziende vanno effettivamente a finire i pomodori coltivati sulle terre martoriate dai veleni dei clan mafiosi. Ma se nessuno aveva direttamente chiamato in causa l’azienda emiliana, non si capisce il motivo di una scelta pubblicitaria tanto drastica.
Esiste peraltro, da qualche anno ormai, uno strumento per la tutela del consumatore, la cosiddetta Tracciabilità di Filiera, per la quale non conta tanto la zona di produzione o la tradizione produttiva del prodotto, quanto chi è intervenuto a produrlo, trasformarlo, inscatolarlo e poi commercializzarlo.
L’identificazione di tutte le aziende coinvolte nel processo, dalla produzione alla trasformazione, fino alla commercializzazione, permette al consumatore di riconoscere le responsabilità di tutti i soggetti che contribuiscono all’ottenimento del prodotto alimentare e di conoscere la provenienza di tutte le materie prime che costituiscono i prodotti, i metodi di produzione, i processi di lavorazione, le modalità di trasporto adottate. L’adozione di un sistema di tracciabilità supporta le aziende in tutte le certificazioni, da quelle ambientali a quelle di prodotto e di processo, con lo scopo di garantire l’assoluta sicurezza alimentare.
Dopo il blocco, qualche anno fa, dell’import di mozzarelle di bufala campana in Oriente, il boicottaggio interno è quantomeno fuori luogo. Forse manifestare solidarietà e vicinanza verso le persone danneggiate senza colpa da decenni di attività illegali avrebbe fruttato qualche simpatia e magari anche qualche consumatore in più alla Pomì. Invece in Italia si specula proprio laddove la mafia ha già tremendamente speculato.