Uscire da una crisi generandone altre, anche più gravi. È questo, in sintesi, quanto avviene con il land grabbing, la politica di accaparramento delle terre portata avanti – soprattutto in Africa – dai Paesi sviluppati o in via di sviluppo per far fronte alla crisi economica. Una risposta che porta con sé la distruzione di interi ecosistemi sociali ed ambientali, migrazioni e violenza, in quella che in molti definiscono una nuova forma di colonialismo.
In questo sistema, evidenzia un dossier dell’associazione Re:Common – figlia della Campagna per la riforma della Banca Mondiale – a giocare un ruolo di primo piano c’è l’Italia, superata solo dalla Gran Bretagna tra quelli che il rapporto realizzato lo scorso anno da Giulia Franchi e Luca Manes definisce senza mezzi termini gli arraffaterre.
Al centro degli affari italiani, soprattutto in Africa, la Jatropha Curcas, un arbusto velenoso considerato per anni “la nuova frontiera della sostenibilità”. I fautori del suo utilizzo, infatti, sostengono che la sua coltivazione non crei alcun tipo di ostacolo o pericolo per la sicurezza alimentare. I semi di questa pianta producono un olio che, pur non commestibile, può essere utilizzato come combustibile o trasformato in biodiesel. È questo il business che fa gola ai governi, Italia inclusa.
Negli anni varie ricerche hanno però ridimensionato il potere “sostenibile” della Jatropha, le cui aspettative di rendimento sono fortemente disattese per il forte uso di acqua, pesticidi e fertilizzanti per la coltivazione industriale. Un mercato dal segno spesso negativo influenzato anche dalla speculazione.
Inoltre, la coltivazione di questa pianta porta all’emissione di alti livelli di anidride carbonica – rendendo di fatto nulli risparmi economici e vantaggi ambientali – nonché alla violazione di diritti umani dei quali, però, ben poche tracce si trovano nei media, nonostante il land grabbing porti ad economie locali distrutte, comunità indigene sfollate nei campi di reinsediamento, arresti arbitrari, torture e governi che stringono accordi migliori con gli investitori stranieri che con le proprie popolazioni.
3,6 milioni di ettari. È la superficie di terreni che l’Etiopia ha concesso a società straniere tra il 2008 ed il 2011. In pratica una parte del suo territorio grande più o meno come l’Olanda – nella quale ricadono alcune tra le zone più fertili del Paese – è stato espropriata alla popolazione per la produzione di agro-carburanti o cibo destinato all’esportazione in un’area che soffre di una grave crisi umanitaria, in cui 12 milioni di persone si ritrovano senza cibo né acqua.
Il processo di rilocazione (o “villagizzazione”) del governo di Adis Abeba è entrato addirittura in due rapporti dell’ong statunitense Human Rights Watch dello scorso anno (Waiting Here for Death. Forced Displacement and “Villagization” in Ethiopia’s Gambella Region e What will happen if hunger comes? Abuses against the indigenous peoples of Ethiopia’s Lower Omo Valley). Sono infatti almeno 70.000 nella sola regione occidentale di Gambella gli etiopi scacciati dalle proprie terre per far posto agli interessi delle società straniere.
“A causa delle caratteristiche ambientali“, scriveva l’antropologo Marco Bassi sul Corriere della Sera nel 2011, “le terre vengono dichiarate «vuote» o «inutilizzate» dal governo, e messe a disposizione degli investitori. La negoziazione avviene solo con le autorità governative, senza nessuna consultazione con la popolazione indigena e senza tenere in alcun conto le forme consuetudinarie d’uso, che comunque garantiscono la sopravvivenza di queste face deboli della popolazione rurale“.
Tra le società coinvolte – si legge ne Gli Arraffaterre – l’italiana Fri-El Green Power S.p.a., operante nel settore delle energie rinnovabili dalla fase di ricerca a quella di vendita e nel portafogli circa 80.000 ettari di terreno utilizzabili tra Etiopia, Nigeria (concessione di 11.292 ettari nello stato meridionale di Abia con diritto di espansione fino a 100.000 ettari) e Repubblica Democratica del Congo, dove nel 2008 la società ha rilevato due imprese statali – Sangha Palm e Congo National Palm Plantations Authority – che gli permettono l’uso di una piantagione di palma da olio di 4.000 ettari, estendibile a 40.000 in trent’anni.
Nel 2006 la società ha inoltre investito 85 milioni di euro nella centrale termoelettrica di Acerra, secondo stabilimento più importante in Europa per la produzione energetica da oli vegetali, fortemente contrastato dagli ambientalisti per la presenza di policlorobifenile (pcb) nell’olio di palma usato per la combustione proveniente da suoli contaminati, come denunciato già due anni fa dai comitati di residenti e Forum Ambientalista.
Di poche settimane fa, inoltre, la prima concessione comunale alla Ecodrin per l’apertura di un impianto per il trattamento di rifiuti pericolosi, amianto, batterie al piombo ed altre sostanze tossiche in un territorio già fortemente provato dal punto di vista ambientale. Una situazione che, a lungo andare, potrebbe far impallidire persino quanto avviene a Taranto con l’Ilva.
I 30.000 ettari nella zona sud-occidentale di Omorate, si legge nel rapporto, sono stati ottenuti “in concessione dalla compagnia tramite un contratto di affitto siglato con il governo del valore di 1,7 milioni di birr l’anno (ovvero 2,5 euro l’ettaro l’anno) e della durata di 70 anni“.
Tra i dettagli della concessione, non è stato inserita alcuna forma di risarcimento per le popolazioni coinvolte.
In quella stessa zona, peraltro, fin dal 2006 il governo di Addis Abeba ha appaltato per 1,4 miliardi di euro all’italiana Salini Costruttori la costruzione della diga Gibe III, che produrrà circa 6.500 GWh all’anno sbarrando la strada al fiume Omo, il cui bacino è stato inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco, mettendo a rischio la sicurezza alimentare di almeno 200.000 persone e creando le premesse per future guerre inter-etniche per l’accaparramento delle risorse rimaste a disposizione.
Poco più di 3 euro è quanto il Gruppo Finanziario Tampieri, attraverso la controllata Senhuile SA voleva pagare per la coltivazione di patate dolci e girasoli nei 20.000 ettari di terreno nella vallata del fiume Senegal prima che l’ex-primo ministro Souleymane Ndéné Ndiaye bloccase tutto a seguito delle proteste portate avanti dal Collectif pour la défense des terres de Fanaye, che hanno portato alla morte di tre persone nell’ottobre 2011.
Come in Etiopia, anche il governo del Senegal non ha previsto alcuna forma di risarcimento né di vantaggio dalla concessione per 99 anni di alcune delle sue terre al Gruppo Tozzi, presente nel paese con la TRE-Tozzi Renewable Energy e la società di diritto JTF Senegal SARL. Anzi, nell’accordo – si legge nel numero 9/2009 della newsletter della Diplomazia Economia Italiana realizzata dalla Farnesina e da Il Sole24Ore-Radiocor – è previsto che la società possa importare materiali e attrezzature “senza alcun dazio” rivendendo il prodotto al governo senegalese “a prezzo di mercato“.
A fronte della situazione etiope, paradigmatica dell’intero sistema di sfruttamento, gli eurodeputati Silvia Costa, Sergio Cofferati e Patrizia Toia del Pd ed Elisabetta Gardini del Pdl il 12 febbraio 2012 hanno presentato un’interrogazione parlamentare a Catherine Ashton, Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Unione Europea. La sua risposta è stata che i dati in suo possesso non avvalorano le tesi portate dai rapporti di Human Rights Watch. Sembra dunque essere meno casuale il fatto che proprio l’UE sia tra i principali donatori di aiuti internazionali all’Etiopia.
[immagine di apertura: farmlandgrab.org]