Le rivolte popolari dei mesi scorsi porteranno nei prossimi anni il Medio Oriente ad una imponente modifica geopolitica, frutto della frammentazione dell’area, sulla falsariga di quanto accaduto dopo l’intervento militare nella ex-Jugoslavia. Anche in questo caso, c’è chi vede sullo sfondo l’ombra lunga dell’Occidente.
Non si tratta degli ormai diffusi errori in geografia della CNN (che nel tempo ha individuato Hong Kong in America Latina e un improbabile confine tra Iraq e Repubblica Ceca) ma di uno studio realizzato da Robin Wright, ex corrispondente a Beirut ed esperta di relazioni internazionali, analista dello United States Institute of Peace and Wilson Center ed autrice di Rock the Casbah: Rage and Rebellion Across the Islamic World.
Dalle pagine del New York Times, lo scorso 28 settembre la giornalista spiegava di non essere particolarmente favorevole a questo nuovo scenario, ma di essere arrivata a questa conclusione analizzando i risvolti della “Primavera araba“, soprattutto per quanto riguarda la richiesta dei manifestanti di decentralizzare il potere secondo identità locali o diritto di utilizzo delle risorse.
Secondo la Wright, la Libia continuerà a seguire la spinta antigovernativa ed autonomista della filo-occidentale Tripolitania e della Cirenaica, da sempre insofferente al controllo del governo di Tripoli, in particolare sui profitti delle sue riserve petrolifere. Alle due regioni si sta aggiungendo il nuovo stato del Fezzan, nella zona sud-occidentale del paese.
A subire lo smantellamento numericamente più importante sarà però l’Arabia Saudita, dove nemmeno gli sfarzosi grattacieli e i petrodollari riescono a sopire fratture nate lungo confini di natura religiosa (tra sunniti e sciiti), tribali ed economici che, secondo la nuova geografia dell’area, porteranno alla nascita di ben cinque nuovi Stati.
La zona meridionale potrebbe utilizzare parte delle sue ricchezze per aiutare lo Yemen del Sud – a maggioranza sunnita – idealmente già diviso dalla parte nord del più povero tra i paesi arabi dopo la cacciata del presidente Ali Abdullah Saleh a febbraio 2012, quando gli yemeniti vennero chiamati a votare, dopo 33 anni, in una elezione a candidato unico. Il vantaggio per gli arabi sarebbe evidente: lo sbocco sul Mar Arabico diminuirebbe la dipendenza dallo Stretto di Hormuz, sotto il controllo dell’Iran.
Infine la Siria, il più fragile tra i paesi considerati e più vicino alla frammentazione. Dal suo territorio potrebbe originarsi un Kurdistan siriano, la cui comunità rappresenta tra l’8 ed il 10% della popolazione nazionale e grazie all’accordo di Erbil del luglio 2012 già amministra alcune delle città dell’area, unito con il Kurdistan iracheno.
Secondo Wright, nasceranno inoltre l’Alawitistan – patria dell’omonima etnia, a cui appartiene anche la famiglia di Bashar al-Assad – ed il Sunnistan, formato dalla fusione con le province sunnite dell’Iraq, divise da un nuovo Stato sciita.
La creazione delle tre città-stato di Misurata (Libia), Baghdad (Iraq) e Jabal al-Druze (Siria) concluderebbe il riassetto dell’area mediorientale.
L’articolo ha sollevato più di un dubbio sull’eventualità che alla base di tutto ci sia un nuovo piano occidentale – guidato da Israele – per indebolire il mondo arabo diminuendone la consistenza geografica e dunque la potenza geopolitica.
I pareri contrari a questa costruzione vedono due punti d’appoggio nella divisione del Medio Oriente avvenuta con l’accordo franco-britannico del 1916 e, soprattutto, nella parcellizzazione dell’ex-Jugoslavia successiva alla guerra nei Balcani degli anni Novanta. Secondo Tarek Osman, economista ed editorialista del Financial Times e del Guardian, per trovare un cambiamento tanto importante “bisogna tornare alla Prima Guerra Mondiale“.
“C’è poco di cui essere orgogliosi negli stati arabi contemporanei e molto da sistemare e ricostruire lungo le direttrici più razionali e umane“, scrive sul quotidiano libanese Daily Star Rami Khouri (qui l’articolo tradotto).
Di diverso avviso è, invece, Belén Fernández, autrice di The Imperial Messenger: Thomas Friedman at Work. “È difficile argomentare che il piano presentato dal Times per lo smantellamento di cinque paesi non rappresenti uno schiaffo della speculazione imperialista“, scriveva agli inizi di ottobre sulle pagine on-line di Al Jazeera. Secondo Fernández, infatti, il giornalismo mainstream occidentale utilizzerebbe due “trucchetti” quando parla del mondo arabo: far risalire tutti i problemi dell’area ad un “battibecco che si prolunga da 1.400 anni” tra sciiti e sunniti, equiparando Iran e Siria, divisa tra una “Siria buona” ed una “Siria cattiva” per giustificare l’intervento militare umanitario.
Non si può prevedere con certezza come si svilupperà la situazione mediorientale dei prossimi anni, soprattutto alla luce delle tante sfaccettature che costituiscono il multiforme “mondo arabo“. Quel che è certo è che Robin Wright ha dato nuovi argomenti al dibattito sullo scontro di civiltà teorizzato nel 1993 da Samuel Huntington.
[foto: New York Times/Internazionale]