Sono circa 307 mila i giovani che ogni anno decidono di iniziare la carriera universitaria, un numero in calo dal 2008 ad oggi, secondo i dati Istat: solo nel 2000 grazie alla riforma dei cicli universitari e l’avvio delle lauree triennali si era arrivati ad una crescita del 12.4%, tendenza che poi si è convertita negli anni seguenti.
Negli ultimi anni l’Italia ha toccato il record negativo degli ultimi trent’anni nel tasso di passaggi dalla scuola superiore all’università. Gli studenti preferiscono fermarsi al diploma della scuola superiore, probabilmente a causa della crisi economica e dell’aumento delle tasse universitarie. Nell’anno 2012/2013 soltanto il 57,7% dei giovani dei diplomati ha proseguito gli studi all’università, e si sono rilevati circa 100 mila immatricolati in meno.
Per attirare iscritti gli atenei italiani dovrebbero puntare su ricerca e innovazione, cercando di stimolare ed attrarre giovani con elevato grado di istruzione che abbiano voglia di specializzarsi in uno specifico settore.
“Le città con molti laureati hanno economie più dinamiche e creative e retribuzioni medie più elevate non solo per i laureati stessi, ma anche per tutti gli altri lavoratori”, spiega il rettore dell’Università Bocconi, Andrea Sironi, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2013-2014.
Stimolanti parole che però contrastano con i recenti dati di Alma Laurea sullo stipendio medio di un neolaureato: circa 1.000 euro al mese netti ad un anno dalla laurea, mentre dopo cinque anni dal conseguimento del titolo si arriva in media a 1.440 euro per i laureati con specializzazione biennale e a 1.484 euro per quelli a ciclo unico.
Dati per niente stimolanti per le famiglie italiane, che pagano a caro prezzo l’istruzione dei loro figli i quali non vengono ripagati al conseguimento del titolo di studi. Ecco perchè si parla spesso e sempre di più di fuga dei cervelli: i giovani laureati italiani preferiscono lasciare il loro Paese perchè sono convinti che in altri Paesi i loro sforzi verranno premiati con uno stipendio più alto o con una carriera più veloce, magari grazie alla maggiore presenza di meritocrazia rispetto all’Italia.
Questi dati sono ancora più sconfortanti per le donne, secondo una ricerca sull’impiego femminile di Risorsa Donna, che registra una percentuale di donne dirigenti o quadro che é ferma da anni al 6,1%, mentre gli uomini sono all’11,2%.
Cinzia Calabrese, che siede nel Comitato Pari Opportunità dell’Ordine di Milano, aggiunge che la situazione non migliora nelle libere professioni: per quanto riguarda la professione di avvocato, ad esempio, il pay gap ovvero il divario di retribuzione tra uomini e donne, é addirittura del 50%.