9.510 milioni di dollari. È quanto dovrà pagare la Chevron-Texaco per il disastro ambientale perpetrato tra il 1964 ed il 1990 in Ecuador, che a fine anno dovrà presentare la documentazione contro la multinazionale alla Corte Penale Internazionale dell’Aja.
680.000 barili di greggio sversati nei fiumi, nella flora e nella fauna delle province amazzoniche di Orellana e Sucumbios, per un totale di 15.834 milioni di galloni di acqua tossica altamente cancerogena versata nell’ecosistema nonostante la Texaco – acquisita dalla Chevron nel 2001 ed oggi terza più grande impresa degli Stati Uniti -avesse la tecnologia adatta per evitare il disastro ambientale, una spessa membrana necessaria ad evitare che il petrolio estratto contaminasse l’ambiente, brevettata dalla stessa società.
In Ecuador vennero invece usati dei tubi di evacuazione, che drenavano le acque tossiche verso i fiumi, abbattendo così i costi.
Secondo il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, il disastro è superiore di ben 85 volte alla fuoriuscita di petrolio della British Petroleum nel Golfo del Messico.
Al danno ambientale vanno aggiunti gli effetti del disastro sulla popolazione, dove si registra una percentuale di malati di cancro tre volte superiore al resto del paese. Stessa percentuale registrata nei bambini di età compresa tra 0 e 4 anni affetti da leucemia. Nelle zone direttamente colpite, uno studio del 2008 definisce in 6 a 1 il rapporto tra cittadini malati e sani. Uno studio dell’Istituto della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Guayaquil ha evidenziato come in un raggio di 200 metri dalle installazioni petrolifere le donne registrino il 147% in più di aborti rispetto a chi vive in zone del territorio nazionale non contaminate.
I focolai epidemici rappresentano peraltro una delle poche possibilità concrete di individuare i pozzi. Fin dal 1972, infatti, la Texaco li copre, nascondendoli alla popolazione e ad eventuali indagini. Secondo la Corte di Sucumbios, la cifra ufficiale è di 356 pozzi, ciascuno dei quali collegati a quattro o cinque piscine per eliminare i rifiuti tossici, per un totale di 820 buche. 157 quelle coperte attraverso bastoni, terra e cemento dalla Chevron. Un procedimento che permette ancora oggi al petrolio di fuoriuscire e continuare a contaminare.
Per qualche anno, la multinazionale ha usato come bracciante anche Pablo Fajardo, oggi principale avvocato dei querelanti in Ecuador, laureatosi nelle aule del tribunale prima che in quelle universitarie. Quando è iniziata la causa nel suo paese, la Chevron si è presentata in aula con ben otto avvocati, pagandone in totale 39 solo per questo procedimento. “Io avevo un vantaggio. Non dovevo inventarmi niente. Dovevo solo raccontare una storia“, raccontava nel 2011 Fajardo a Pablo Ximénez de Sandoval del quotidiano spagnolo El País (qui la traduzione di Beatrice Ruscio per Peacelink).
Nonostante questo, però, la causa giudiziaria va avanti tra singolari giustificazioni della multinazionale – passata nel corso degli anni a sostenere che il petrolio non inquini e sia addirittura biodegradabile ad imputare il cancro alla scarsa igiene degli indigeni – e veri e propri tentativi di mettere a tacere i querelanti, come la richiesta di applicare la RICO (Racketeer Influenced and Corruption Organization) una legge federale statunitense contro il crimine organizzato richiesta dalla Chevron-Texaco in quanto, a suo parere, i malati farebbero parte di una associazione criminale formatasi allo scopo di estorcergli denaro.
Inoltre, a fine aprile 2003, otto giorni prima dell’inizio del processo a Sucumbios che ha dato origine alla storica sentenza di colpevolezza, viene torturato ed ucciso William Fajardo Mendoza, fratello di Pablo, il quale ha sempre ripetuto di non poter affermare con certezza che dietro a ciò ci sia la Chevron.
Lewis Kaplan, giudice del Distretto Sud di New York – dove nel 1993 la Texaco venne querelata per la prima volta – ha dichiarato non applicabile la sentenza negli Stati Uniti finché non avrà deciso sulla competenza dei tribunali. L’indennizzo però può essere riscosso in uno qualsiasi dei 50 paesi dove la multinazionale investe e possiede beni. In attesa del nuovo procedimento che si aprirà davanti ai giudici de L’Aja a dicembre.