Marc Kopp ce l’ha fatta: si è lanciato da un’altezza incredibile, sfidando la malattia che lo affligge: la sclerosi multipla. Da diecimila metri il volo in discesa verso l’Everest in paracadute, in tandem con il paracadutista estremo Mario Gervasi, ha battuto un record che non riguarda solo lo sport: Marc è stato il primo disabile nella storia a lanciarsi dal paracadute per atterrare sull’Everest. É francese, ha cinquantacinque anni e ha avuto il coraggio di sfidare la malattia, in un modo sicuramente estremo ma altrettanto soddisfacente: “Sono una persona felice. Probabilmente un po’ pazzo…solo un po’. Per prima cosa sono felice” ha dichiarato prima del volo.
La meta era a quattromila e cinquecento metri dove li attendeva una piattaforma appositamente preparata. Il costo complessivo è stato di circa ventiseimila euro, raccolti da amici e donazioni private. L’Everest dunque, la vetta più alta e conosciuta del mondo per un Ulisse dei nostri giorni che sfida i limiti dell’uomo disabile, che sappiamo essere parecchi anche a causa della mancata attenzione da parte di tutti. Un volo liberatorio probabilmente, qualcosa che lo ha alleggerito anche se per poco, donandogli una forza in più oltre al coraggio che già aveva: la forza di farcela anche per gli altri, quegli altri che non possono. Lo ha dimostrato a tutti.
Quando si leggono queste notizie scatta dentro di noi qualcosa che ci fa riflettere. Non si tratta di coraggio, tenacia, forza di reagire. Quello che ci colpisce e ci fa riflettere è altro. E questo altro ci fa capire che spesso le migliori lezioni ci arrivano da chi crediamo meriti compassione: ma la compassione è inutile, è fine a se stessa, è sterile. É tempo di far elaborare alla nostra mente notizie come queste, perché la dicono lunga non solo su quello che possiamo fare come esseri umani nonostante tutto, nonostante le avversità, nonostante la malattia ma ci permettono di comprendere ancor meglio la natura umana e la forza straordinaria di persone come Marc Kopp. O come Stefano Borgonovo, affetto da SLA che ricorderemo per la forza e la dignità e per quello che ci ha insegnato, che non ha prezzo.
Non dobbiamo per forza buttarci ogni giorno da diecimila metri d’altezza, aprendo il paracadute a novemila metri, dopo aver volato davvero.
Ma dobbiamo riconoscere e elaborare la lezione che persone come Marc tengono al mondo intero: essere malati, essere disabili non significa essere spenti, in attesa di un non futuro o di un brutto futuro. Le parole di Marc quando ha avuto l’idea insieme a Gervasi, lo scorso Luglio, sono queste: “Perchè no? Ho sentito che dovevo inviare un messaggio di speranza. Anche se sei malato, sei ancora vivo“.
Siamo in grado di interiorizzarlo?