Un edificio dismesso. 4500 metri quadrati di superficie. Dieci piani di pareti vuote. Cento writers provenienti da tutto il mondo. Nessun vincolo tematico o formale. Ogni tipo di strumento e colore a disposizione. Ed è subito arte.
Un concentrato di vitalità e creatività prima di essere demolito. È la nuova, breve vita di un palazzo nel <13esimo arrondissement di Parigi, tra la Bibliothèque Nationale de France e la nuova Cité de la Mode et du Design, al numero 5 di rue Fultonil. La costruzione, di classica architettura anni ’50, oggi ribattezzata La Tour Paris 13, è stata completamente trasformata dalle opere di artisti di sedici nazionalità diverse, che hanno contribuito a creare quella che ora è considerata una delle più grandi mostre temporanee di street art mai realizzate.
La colata arancione che ricopre le facciate della struttura cattura subito l’occhio del passante che si ritrova immerso in un museo a cielo aperto fatto di graffiti, stencil, fumetti, disegni, volti, colori, labirinti geometrici. Un’opera d’arte destinata a scomparire. Un progetto visivo e sonoro, multiforme e ambizioso che sarà accessibile gratuitamente fino al 31 ottobre, anche virtualmente, sul sito web del progetto e un’applicazione dedicata, dove è possibile vedere all’opera gli artisti attraverso foto, testi, video e registrazioni sonore. Dal primo novembre saranno chiusi i cancelli per consentire la demolizione. Solo apparente però, perché per dieci giorni sarà ancora possibile accedere al sito internet da cui gli utenti potranno salvare con un click le loro opere preferite, che continueranno a comparire on line dall’11 novembre e su Twitter grazie all’hashtag #tourparis13, unica e ultima testimonianza di questa “Babele” artistica. Poi arriveranno le ruspe.
Un sogno artistico in cui il fondatore e direttore della Galerie Itinerrance e coordinatore del progetto, Mehdi Ben Cheikh, ha fortemente creduto pur senza alcun finanziamento e con il solo supporto del sindaco dell’arrondissement, convinto che le aree urbane abbandonate possano essere ripensate e rivitalizzate attraverso la creatività e che, riunendo il meglio della street art nel cuore della Ville Lumière, la città francese “possa ritornare ad essere la capitale dell’avanguardia, come era prima della seconda guerra mondiale”. Recenti ricerche urbanistiche hanno, infatti, identificato questi “spazi bianchi“, ovvero zone temporaneamente in disuso, come un potenziale strumento di crescita culturale, sociale ed economica per la città contemporanea. L’idea si inscrive così in un progetto di più ampio respiro che mira al recupero e alla trasformazione di questa parte di Parigi in un museo a cielo aperto della street art, invitando street artist internazionali, come Obey, Inti, C215 o Vhils a dipingere o a realizzare degli interventi sulle facciate di palazzi.
Non storicizzazione ma innovazione. È stata questa la linea ideale seguita dagli organizzatori, non interessati a riassumere quello che finora l’arte urbana ha mostrato ma le sue infinite possibilità di sviluppo futuro dando voce ad urban artist hanno vissuto quegli spazi per sette mesi nel tentativo di imprimere la loro essenza espressiva senza filtri né limitazioni tematiche o linguistiche. Gli spazi prima vuoti si sono riempiti di vita con i segni indelebili lasciati dai colori, carichi di valenze sociali, letterarie, politiche, oniriche, poetiche in un coagulo di energie e ispirazioni creative differenti.
Anche quindici writers italiani sono stati chiamati a contribuire a questa metamorfosi. Selezionati dall’agenzia Le Grand Jeu, diretta da Christian Omodeo e specializzata in progetti di street art a livello europeo, hanno avuto a disposizione un intero piano, il terzo, da trasformare in opera d’arte. Lo hanno fatto spaziando dai graffiti alla stencil art, passando per il post-graffiti e le correnti stilistiche più contemporanee influenzate dai codici figurativi dell’illustrazione.
Sui muri del Piano si alternano diverse anime: le figure di Agostino Iacurci, tipiche dei suoi murales, le forme sinuosamente astratte e tridimensionali di Peeta, 108 con le sue enormi figure astratte, le decorazioni di JBRock, Dado che ha ritagliato la carta da parati e realizzato alcuni graffiti a matita, gli stencil di Orticanoodles che ripensano icone pop in un contesto di denuncia sociale, Awer e le sue creature oniriche, le forme fluttuanti e sospese di Etnik, Hogre con gli stencil, Hopnn ha dipinto dei temi culinari in cucina, prima di ritagliare il parquet del salone per realizzare un triciclo gigante con il legno di recupero, Senso e le sue influenze manga, i labirinti geometrici Joys, Moneyless e l’essenzialità delle sculture e l’interpretazione di elementi naturali in senso astratto di Tellas. Alla urban artist MP5 è stata invece assegnata la prima stanza del percorso espositivo del piano terra con la speranza di dare alla Street art in Italia la stessa riconoscibilità che le viene attribuita in altri Paesi: le sue opere in bianco e nero parlano di un mondo animato da forti contrasti politici e vogliono portare il pubblico a riflettere sulle contraddizioni della contemporaneità.
Ogni intervento è riuscito a ritagliarsi una propria autonomia con la costante interazione degli artisti con gli spazi a loro destinati, pensando il loro intervento dopo essere entrati in contatto con essi. “È questo approccio che rendeLa Tour Paris 13 così distante dalle logiche degli allestimenti museali o galleristici”, dichiara Omodeo.
La Street-Art è nata a fine degli anni Ottanta come forma di denuncia sociale nel tentativo sovversivo di abolire la proprietà privata riappropriandosi degli spazi comuni o semplicemente come modo per esprimere liberamente la propria creatività, ma la dinamica attuale è inarrestabile. Recentemente è avvenuto il passaggio da arte minore a fenomeno socioculturale e artistico.L’incombente distruzione dello stabile pare richiamare metaforicamente la problematica intrinseca alla stessa arte urbana, portando “alla luce del giorno la furia iconoclasta con cui la nostra società reprime la street art”, dice Omodeo: tag, throw up o stencil fantastici vengono sistematicamente cancellati ogni giorno, senza che nessuno si chieda se abbiano un valore artistico da preservare.
Intanto la più grande opera d’arte collettiva ha permesso di realizzare l’utopico sogno di artisti che stanno “ridipingendo il pianeta senza neanche aver avuto bisogno di un manifesto artistico”. Se non è arte questa.
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