Qualcuno disse che nell’arte contano zero, che non hanno mai saputo dipingere, essendo le donne artiste molto meno presenti dei loro colleghi maschi sul mercato, nei musei e nelle collezioni. La critica e le accanite femministe fecero in modo che questo signor Baselitz, responsabile della vana dichiarazione, venisse ricordato come il peggior misogino nella storia dell’arte. Eppure sono state proprio le donne le prime artiste della preistoria, manifestando l’istinto naturale di rappresentare e creare, lasciando la propria impronta, come segno indelebile della propria esistenza.
A questo proposito, uno studio eseguito dall’archeologo americano Dean Show, professore di antropologia alla Penn State University, ha dimostrato che i disegni preistorici sulle pareti delle caverne sono opera delle donne e non degli uomini come avevano creduto per anni i ricercatori. Una falsa interpretazione a priori, poiché il fatto che gli uomini si dedicassero alla caccia non significava che avessero anche l’esclusiva nel disegnare animali. Al contrario, erano proprio le donne a sistemare le carni, conoscendo perciò l’arte venatoria quanto gli uomini. Lo studio nasce da una semplice constatazione o singolare curiosità, riguardante lo studio delle differenze tra le mani maschili e quelle femminili, individuate in seguito sui disegni murali. Una scoperta che non rimarrà fine a se stessa, essendo Snow convinto delle sue affermazioni e desideroso di continuare nelle ricerche.
La presenza delle donne nel mondo dell’arte in qualità di fruitrici, critiche o artiste, è sempre stata molto limitata, perché le differenze sociali non mancarono nemmeno in questo campo apparentemente lontano da vincoli o riserve. Eppure la figura ideale del mercato è sempre stata identificata con l’artista giovane e iperproduttivo, lasciando quindi ampio spazio alla sfera maschile, che ha fatto della figura femminile un modello di osservazione e contemplazione, vero e proprio oggetto ispiratore dell’artista stesso.
Il dualismo perfetto nella sua esclusione dalle attività pittoriche e il suo coinvolgimento allo stesso tempo, poiché sono le donne le protagoniste indirette, autentici specchi capaci di riflettere la vera essenza dei pittori. Donne come corpo, carattere, amiche, nemiche o amanti, raffigurate nelle molteplici sfaccettature, dettate da un velo lunatico, che si è sempre tinto di mistero. Dalla Venere di Willendorf, a quella di Botticelli, dai nudi di Rubens a Renoir, la necessità degli artisti è sempre stata quella di raffigurare quella metà di sé, in cui racchiudere ideali e desideri.
Le epoche si susseguirono all’insegna delle grandi trasformazioni e lo stesso gli artisti e le loro stravaganti necessità, che emersero nei diversi modi di rappresentare le donne nel corso dei secoli. A raccontare l’evoluzione nella rappresentazione dei volti dell’essere umano in campo pittorico, è la mostra “Il volto del ‘900” aperta da poco a Milano a Palazzo Reale, con opere provenienti direttamente dal Centre Pompidou. Un viaggio che porta l’osservatore non solo verso la scoperta dell’essere umano a 360 gradi, ma è anche un percorso attraverso i volti delle donne, ognuna con un proprio stile e carattere. Creature delicate in Modigliani, esotiche e misteriose con Matisse. Con Picasso, uno che di donne se ne intendeva, i tratti sono riportati nei volti cubisti e deformati.
E come chiudere questo percorso se non con un’artista, in riga con i grandi nomi maschili dell’arte. Lei, Tamara de Lempicka, ritrae la donna mondana ed emancipata, eccentrica e anticonformista. Caratteri che cercano quasi di liberarsi dei tipici tratti comuni ai più grandi artisti. È la donna questa volta a raccontare il proprio universo, in una continua lotta di affermazione nell’arte come nella vita.