E’ approdato ad Istanbul con stessa classe con la quale si era congedato dall’Inghilterra, acquistando una pagina intera del Manchester Evening News per ringraziare i suoi tifosi dopo tre anni indimenticabili. La stessa smisurata classe che lo ha accompagnato nella sua carriera da calciatore, prima a Bologna, poi alla Samp e alla Lazio, che nonostante tutto gli ha permesso di raccogliere soltanto un decimo di quello che il suo sublime talento avrebbe meritato.
Perché Roberto Mancini non è mai stato uno come gli altri: determinato e alle volte arrogante, anarchico e spesso folle. Soltanto una personalità complicata e mai banale come la sua avrebbe potuto accettare, senza pensarci due volte, il trasferimento sulle rive del Bosforo, dopo un’estate passata in barca senza pensieri a godersi il sole del Mediterraneo. Soltanto uno che alla sua prima esperienza da allenatore è riuscito ad alzare al cielo subito una Coppa Italia e due anni dopo ha riportato lo scudetto nella Milano nerazzurra dopo quindici anni di astinenza, non si sarebbe fatto spaventare da una realtà complicata come quella del Galatasaray, orfana dell’Imperatore Terim, esonerato clamorosamente dopo l’1-6 subito in Champions contro il Real.
Ed eccolo qua, dopo poco più di venti giorni godersi la prima vittoria in campionato arrivata sabato contro l’impronunciabile Karabükspor e quella in Champions di mercoledì sera contro il seppur umile Copenaghen. Perché a prescindere dalla pronosticabile vittoria contro i danesi, con annesso secondo posto del girone davanti alla Juventus di Conte, e il riscatto obbligato in Super Lig dopo il passo falso all’esordio in trasferta, la squadra del quartiere Galata sembra aver metabolizzato quasi del tutto i diktat tattici e la mentalità dell’uomo nato a Jesi quarantanove anni fa il prossimo 27 novembre, fatti di sacrificio, pressing e ripartenze. Vedere un campione come Didier Drogba aver ritrovato l’entusiasmo di un ragazzino a trentacinque anni fa effetto, come ammirare Wesley Sneijder ripiegare in fase difensiva sopra di tre gol, o l’ivoriano Eboué sfornare assist dopo cavalcate di cinquanta metri.
I calciatori hanno assimilato il suo credo, la bolgia della Türk Telekom Arena lo ha definitivamente adottato e la “bella, struggente e misteriosa” Istanbul, come la racconta Pamuk nel suo romanzo, è divenuta a tutti gli effetti la sua città. Il teatro è quello giusto, la cornice è delle migliori. Ora sta al protagonista prendere in mano una volta per tutte la scena e dar vita ad una rappresentazione degna dell’estro e della genialità che lo hanno sempre contraddistinto.