Siamo letteralmente invasi da app per fare qualsiasi cosa, da social network rivolti a tutte le nicchie immaginabili, dall’informazione online e servizi web.
Non esiste quasi più un’attività che non si possa fare online o che comunque non coinvolga la rete nel processo, eppure l’Italia è sempre indietro rispetto a tutti e non riesce a darsi quello slancio necessario per trasformare le potenzialità in crescita economica.
Proprio in questi giorni si sono tenuti diversi eventi in cui esponenti autorevoli del mondo politico e imprenditoriale hanno avuto modo di esprimersi riguardo al digital divide, a cominciare dal Primo Ministro Enrico Letta che ieri ha dichiarato in Confindustria che l’Italia è indietro e ha una grande necessità di attuare la riforma dell’Agenda Digitale.
Nella legge di stabilità presentata ieri in versione definitiva al Parlamento sono previsti 20 milioni di euro per il completamento del Piano Nazionale della Banda Larga e che comunque hanno rischiato di rimanere fuori anche stavolta. Ricordiamo che nel precedente Decreto del Fare erano stati tagliati fuori.
Nell’evento “Senza rete non si fa rete”, la CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) ha spiegato che colmare il digital divide tramite l’ulteriore sviluppo della banda larga porterebbe “vantaggi alle imprese e ai cittadini, con un risparmio di risorse fino a 35 miliardi di euro”.
Si aggiunge al coro anche il viceministro dello Sviluppo Economico Antonio Catricalà che punta il dito contro quelli che definisce “digital evaders”, cioè gli “evasori digitali”, coloro che quotidianamente ostacolano con il loro operato la diffusione degli strumenti digitali. Catricalà fa l’esempio del “dirigente che stampa la mail per farla leggere al collaboratore anziché inviarla” e di “interi gruppi importanti che fanno muro”.
Per cui riepilogando esistono problemi strutturali che fanno piazzare l’Italia al penultimo posto in Europa per numero di connessioni a banda larga e ultralarga, e problematiche di questo tipo sono dovute principalmente agli scarsi investimenti in infrastrutture e che obbligano le aree rurali del nostro Paese a un misero 17% di copertura di internet veloce, penalizzando di conseguenza tutte quelle aziende che vorrebbero informatizzarsi, ma non possono farlo.
Esistono inoltre problemi culturali, come quelli sopracitati relativi alla scarsa inclinazione a sfruttare al massimo gli strumenti digitali e quelli legati alla scarsa capacità della Pubblica Amministrazione di mettere i cittadini in condizione di interfacciarsi digitalmente con le istituzioni.
L’obiettivo era quello di far dialogare il 50% della popolazione italiana con le istituzioni entro il 2015, ma a due anni da questa data siamo a un misero 19%. Lo stesso dicasi per le aziende, solo il 4% permette di fare acquisti online, contro una media europea del 20%.
A margine di questi dati e queste considerazioni, le dichiarazioni di Confindustria Digitale completano il quadro del problema digital divide in Italia: “non è che manchino i fondi, semmai manca una regia, mancano direttive chiare: oggi le Pubbliche amministrazioni italiane, centrali e locali, spendono infatti in modo fortemente frammentato più di 5 miliardi di euro all’anno in beni e servizi digitali, la maggior parte dei quali è però finalizzata alla manutenzione dei propri sistemi informativi che continuano così a rimanere scollegati tra di loro”.
C’è bisogno di educare le persone, anche quelle che ci sono vicine tutti i giorni, ad un uso più efficiente delle risorse informatiche, bisogna sollecitare anche le più piccole istituzioni nel mettere a disposizione online documenti e servizi che sono fruibili solo recandosi fisicamente nelle loro sedi e c’è bisogno che le aziende sfruttino maggiormente le potenzialità offerte dalla rete per vendere e farsi conoscere.
Lo Stato da parte sua deve investire di più e mettere tutti in condizione di digitalizzarsi.