Le storie di sport spesso sono storie di riscatto sociale, di traguardi duri raggiunti dopo faticose scalate e dolorose rinunce. Ma a volte tutti i sacrifici fatti da un’atleta scivolano via in un batter di ciglia, e tutto il mondo intorno crolla come un castello di carte al primo soffio di vento a causa di condotte sbagliate o cattive abitudini. La storia di Maurizio Schillaci, cugino del più noto Totò, è indicativa di tutto ciò, e rappresenta solo l’ultimo esempio di come uno sportivo possa passare dagli stadi più prestigiosi alla miseria più profonda.
Passato dai polverosi campi delle giovanili del Palermo al Licata di Zeman, squadra rivelazione della Serie B negli anni 80, Maurizio mette in mostra un talento indiscutibile, grazie al quale conquista la fiducia dell’allenatore boemo e che gli permette di segnare 22 reti in 66 partite. Le sue prestazioni vengono presto notate anche dalle squadre più blasonate, con la Lazio che riesce ad anticipare la concorrenza e a portare all’Olimpico il talentuoso trequartista. Per tutti è lui il vero talento in casa Schillaci, pronto a esplodere a livelli assoluti, ma Roma è solo la prima tappa che conduce a un inesorabile declino. Un infortunio mal curato gli fa saltare gran parte delle partite, c’è anche chi insinua che i suoi problemi siano inventati, ma al successivo trasferimento a Messina alcuni esami evidenziano un serio problema al tendine. La carriera ormai è in fase discendente, e quando il giocatore arriva a Castellammare di Stabia inizia a frequentare i giri sbagliati, quelli che lo conducono verso il tunnel della droga.
Dopo un declino rapido, oggi Maurizio vive da clochard nella stazione di Palermo, dorme nei treni e chiede un lavoro per tornare a vivere dignitosamente.
La sua triste vicenda ricorda quella di altri campioni, molto più noti del siciliano, che dopo una vita di vittorie, per un motivo o per un altro, sono scivolati nel baratro a causa dell’abuso di droga o alcool.
Nell’ambito calcistico i primi che vengono in mente sono Diego Armando Maradona e George Best, due dei più grandi talenti della storia del calcio mondiale, che una volta in cima al mondo hanno dissipato il loro immenso talento a causa di uno stile di vita scriteriato, votato al consumo di stupefacenti e alla dissolutezza. Ma i loro sono solo i casi più conosciuti.
Negli ultimi anni diversi calciatori famosi hanno visto le loro carriere distrutte: il brasiliano Adriano, il sampdoriano Francesco Flachi, l’olandese Andy van der Meyde (che nella sua biografia ha confessato una serie di aneddoti davvero sconvolgenti sulla permanenza a Milano), Paul Gascoigne, ridotto a vivere come un homeless per diverso tempo dopo gli enormi problemi avuti con l’alcool e l’altro britannico Kenny Sansom, ex-difensore dell’Arsenal e della Nazionale, trovato a dormire su una panchina dopo aver sperperato tutto in vizi vari. Nel calcio inglese il fenomeno è particolarmente diffuso, addirittura un‘inchiesta della XPro, associazione che tutela gli ex calciatori professionisti nel Regno Unito, ha stimato che 3/5 dei professionisti che si ritirano cadono sul lastrico entro 5 anni dalla fine della loro carriera, spesso proprio a causa della droga o del consumo di alcolici.
Anche in altri sport il fenomeno è diffuso. Nella pallacanestro americana, vista la provenienza di molti atleti (cresciuti spesso in zone malfamate delle metropoli a stelle e strisce) perdersi è facile. Federico Buffa, nel suo splendido libro “Black jesus”, racconta di atleti come Earl “the goat” Manigault e Reggie Lewis, dominatori nei playground ma rovinati dalla cocaina. Anche cestisti entrati nell’establishment dell’Nba sono caduti nella trappola. Si pensi a Michael Ray Richardson, fenomenale play dei New Jersey Nets degli anni 80, squalificato a vita per recidività al consumo di cocaina, o a tanti altri ex giocatori caduti in malora dopo la fine della carriera, vissuta male a causa della mancanza di prospettive future e dello sperpero di denaro.
Per fortuna c’è anche chi riesce a tornare a galla da situazioni del genere. La storia di Abdul Jelaani, ex campione della pallacanestro Livornese e Laziale, è significativa in questo senso. Jelaani ha militato in italia nel momento d’oro della nostra pallacanestro, quando i grandi campioni stranieri spingevano per arrivare in Serie A. In campionati di livello altissimo “il meroni del basket“, come fu soprannominato per la delicatezza della mano mancina, diede prova di tutta la sua classe. Dopo la fine della carriera una serie di circostanze avverse lo hanno portato in mezzo a una strada, a vivere da clochard. Grazie a Simone Santi, presidente del Basket Lazio, è stato riportato in Italia e ora allena le giovani promesse del club, a cui trasmette tutta la sua passione per la palla a spicchi e l’allegria di cui è capace.