Zygmunt Bauman all’apertura del suo intervento a Meet the media guru ha specificato che lui un guru non lo è per niente. E infatti è molto di più: è un grande pensatore, un fine analista della società, delle sue dinamiche, del rapporto tra la vita online e offline. E il suo modo di pensare, che mi si sgrana davanti come perline sul filo di una collana, mi ha fatto riflettere.
Che siamo tutti connessi è ormai evidente.
Che ci sia una discrepanza tra le nostre interazioni – reali e virtuali – lo è altrettanto, anche se con diversi gradi di intensità. Predichiamo tutti una certa coerenza tra questi due aspetti della vita, ma di fatto tendiamo in qualche modo a una sorta di doppia personalità, dove online siamo tutte belle, brillanti, sexy, disinvolte, anche mentre magari stiamo solo pulendo casa col pigiama e la pinza nei capelli, ma tanto chi può saperlo.
È molto facile essere gradevoli, sorridenti, capaci, avventurieri quando si tratta di pubblicare o di descrivere qualcosa che facciamo, misurando le parole come alchimisti e scegliendo le immagini che veicolino un’idea della nostra vita come apparentemente perfetta; tendiamo all’enfasi, al bello, al positivo anche dove di bello e di positivo c’è ben poco, liquidando anche le cose meno interessanti attraverso una forma di autoironia che porta ogni esperienza a livello di storia condivisibile e, mi raccomando, che sia brillante.
Il meccanismo si auto-alimenta, laddove più vedi approvazione, a colpi di “mi piace” o retweet, più offri storie di te che la generino, in un vortice che ti porta a declassare tutto a “storie disponibili” anche là dove alcune di quelle storie invece meriterebbero protezione e condivisione preziosa.
E questa smarrita capacità di vedere quella differenza – quel valore – è forse la cosa più dannosa che si possa fare, perché quando la perdi online la perdi ovunque, e invece bisogna ritornare a distinguere, distinguere le cose e viverle non nell’ottica di come ne scriverai poi ma guardandole dritte negli occhi e basta. Anche nel loro essere negative.
Il fatto è che siamo talmente abituati a produrre il solo rumore della tastiera e del mouse del computer che finiamo col credere che non esista altro rumore al mondo. E finiamo col credere che quel rumore conti qualcosa.
E invece siamo tanto più reali quanto più ci allontaniamo da questo schermo.
E ci troviamo la vita vera, lì, lontano. Che magari no, non ha il filtro Instagram earlybird che rende tutto così elegantemente vintage, ma ha colore delle cose vere, che spesso mancano di un buon direttore della fotografia, ma che puoi toccare, senza mouse in mano, toccare davvero.
La vita vera è quella cosa dove si deve tornare a scandalizzarsi davvero, muoversi davvero, partecipare davvero, gioire davvero, al netto di tasti “mi piace”, “commenta” e colpi di mouse.
Avete mai l’impressione che qui davanti se ne perda un po’ il senso? Della partecipazione, dell’amicizia, della vicinanza, del “reale” – bello o brutto che sia.
Il senso è a volte la sola cosa che ci resta.
La partecipazione io la intendo dal vivo.
La vita io la intendo dal vivo.