Nell’aula del Senato, il presidente Pietro Grasso, ha ricordato il disastro del Vajont, di cui ricorrono i 50 anni: “Lo Stato deve scusarsi per questa tragedia, che poteva essere evitata, se non fossero prevalse logiche affaristiche sulla moralità e sul valore della vita umana”. Nel suo intervento ha ricordato che l’Unesco ha considerato quello del Vajont il più grande disastro evitabile della storia della umanità e ha concluso: “Lo Stato ha la responsabilità non solo delle vittime, ma anche del dolore arrecato ai sopravvissuti, ai quali, per troppi anni, é stato negato il diritto di veder riconosciuti dalla giustizia i responsabili di quanto accaduto”. Ma cosa avvenne di preciso la notte tra l’8 e il 9 ottobre del 1963 nella valle del Vajont?
Per rispondere a questa domanda, bisogna andare molto indietro nel tempo, addirittura nel lontano 1929. Un ingegnere, Carlo Semenza, e un geologo, Giorgio Dal Piaz, iniziano a studiare attentamente la valle del Vajont. Fanno fotografie, raccolgono pietre, chiedono informazioni agli abitanti del posto, soprattutto a quelli residenti in due piccole comunità, Erto e Casso e poi un giorno scompaiono. Ritornano nel 1957, quando annunciano che lì verrà costruita la diga più grande del mondo, alta circa 200mt e in grado di contenere circa 58milioni di metri cubi di acqua. I due non erano semplici scienziati, ma dipendenti della Sade, una società che costruisce dighe, che permettono alle centrali di produrre energia destinata alle industrie italiane. Ne ha già costruite 7 sul Piave, ma per garantirsi una riserva costante di acqua, si pensa di inondare completamente una valle, affinché funga, per così dire, da Banca dell’ acqua.
Secondo Semenza, questo progetto è realizzabile nella valle del Vajont, anche se Del Piaz è scettico, non vuole autorizzare il progetto, perché quella è una zona soggetta a frane, gli stessi abitanti di Erto e Casso gli avevano detto che le loro case erano state costruite su un terreno franato. Del Piaz dice al collega che questo progetto “gli fa venire i brividi”, ma alla fine si fa convincere e lo firma. Gli abitanti del posto sono preoccupati, invitano anche una giornalista dell’Unità, Tina Merlin, una ex partigiana, che dalle pagine del suo giornale inizia a parlare di tragedia annunciata e di costruzione di un disastro, ma la accusano di essere anti-italiana, disfattista e non le danno ascolto.
La diga più alta del mondo viene costruita per arginare il torrente Vajont, ma ogni tanto qualche piccola frana del monte Toc crea qualche apprensione, ma gli affari sono affari e quella diga serve per fare soldi, tanti soldi. Il pomeriggio dell’ 8 ottobre una frana mette in allerta gli ingegneri della diga, che chiamano il direttore della Sade preoccupati, ma anche loro vengono liquidati e il colloquio registrato termina con una terribile affermazione: “Dottore, allora, che Dio ce la mandi buona”.
Non sarà così. Alle 22 una frana enorme che si riversa nelle acque contenute dalla diga causa una esondazione terrificante, che in breve si trasforma in fango e che non lascia scampo a tanti abitanti di Erto, Casso e divora completamente un paese più a valle, Longarone. Dopo tre giorni si finisce di scavare alla ricerca dei morti e sul posto giungono politici e media. Lì, occhiali neri per coprire gli occhi devastati dalle lacrime, c’è anche Tina Martin. La Rai non la intervista, ma rilascia delle dichiarazioni ad un giornalista francese, che tenterà invano di farle trasmettere sia dalla tv di stato italiana che da quella francese.
Tina spiega come, chi e perché è avvenuta quella tragedia. La nostra giustizia ha impiegato 50 anni per accertare le responsabilità, altrettanto lo Stato a scusarsi. Mezzo secolo dopo è stato tutto accertato, tranne il numero preciso delle vittime, di cui solo la metà identificate. Sulla lapide di una vittima senza nome fu scritto: “Diga funesta, per negligenza e sete d’oro altrui persi la vita, che insepolta resta”.