Il messicano Alfonso Cuaròn, fermo dal 2006, anno della riuscita opera distopica I figli degli uomini, torna in campo con un arsenale impressionante: 80 milioni di dollari di budget e un’equipe tecnica di primissimo livello, con la fotografia curata dal connazionale Emmanuel Lubezki e gli effetti speciali affidati alla Framestore (Oscar per La bussola d’oro). Il risultato è Gravity: presentato in anteprima mondiale all’ultima Mostra di Venezia e interpretato da George Clooney e Sandra Bullock, il film ha sbancato i botteghini durante il primo week-end di programmazione in Italia, superando quota 2 milioni di euro di incassi.
La pellicola mostra le vicende dei due astronauti Ryan Stone (Bullock) e Matt Kovalsky (Clooney), che mentre lavorano alle riparazioni di una stazione che orbita nello spazio, vengono sorpresi da un’improvvisa tempesta di detriti, che distrugge la stazione, lasciandoli in balia dello spazio profondo, nel disperato e pressoché impossibile tentativo di sopravvivere e tornare sulla Terra.
Gravity, formalmente, rasenta la perfezione: i più sofisticati effetti speciali in circolazione, applicati alla sapiente regia di Cuaròn, sono una gioia per gli occhi. I piani-sequenza (alcuni lunghi diversi minuti) si alternano ad efficaci e curatissime inquadrature soggettive, che fanno sentire chi guarda come all’interno di una simulazione digitale: i corpi dei protagonisti vengono cullati e trascinati dal vuoto spaziale, in una danza silenziosa e dai tratti onirici, basata sulla dialettica (in questo caso esclusivamente fisica) uomo/cosmo.
Riguardo gli interpreti, se Clooney compie ordinaria amministrazione, è la Bullock a reggere da sola il peso di quasi tutto il film, sfoderando una performance intensa e grintosa dall’inizio alla fine.
Tutto molto bello dunque.
Adesso però torniamo sulla terra e poniamoci qualche riflessione. Innanzitutto diciamo che se si trattasse di un corto, Gravity sarebbe una pietra miliare. Perchè il lungometraggio, dopo la prima notevole mezz’ora, perde tutto il suo mordente, abbandonando lo spettatore ad una stanca visione retta sull’inerzia, proprio come una lentissima ed inesorabile discesa dallo spazio. Inoltre, sul piano tecnico, inteso come sviluppo di alcune sequenze e stesura della storia (leggi sceneggiatura), ci sono degli elementi decisamente non all’altezza: non che si pretendessero dialoghi alla Billy Wilder, sia chiaro, ma pur di evitare battute al limite del ridicolo, forse sarebbe stato più opportuno lasciar parlare solo il vuoto cosmico. A proposito di cosmo, sapevate che i detriti vanno ad una velocità così bassa che è possibile vederli in movimento e in alcuni casi addirittura evitarli? Gravity ce lo insegna!
Ancora, prendiamo al balzo la palla lanciata da più di un esponente (più o meno prestigioso) della critica a stelle e strisce, che ha definito Gravity come il punto più alto della fantascienza da molto tempo a questa parte, molto vicino all’Odissea di Kubrick. Saltando a piè pari il paragone (che ci sembra risibile) con 2001, citiamo in serie qualche altro esempio del genere, limitandoci ad opere con stessa location. Ebbene, Gravity non ha la genialità di Moon, gioiellino del 2009 di Duncan Jones (il figlio di David Bowie) caduto già nel dimenticatoio. Gravity non ha la voglia di osare di Mission to Mars, dove De Palma, nel suo tutt’altro che perfetto viaggio verso il pianeta rosso, si avventurava in una suggestiva ipotesi eziologica. Gravity non abbozza neanche un messaggio di natura ecologica (che ad esempio trovavamo nel delizioso Wall-E, targato Pixar), limitandosi ad un paio di trite considerazioni su quanto bello sia il nostro pianeta.
Queste ultime riflessioni sembrano tuttavia trovare una risposta abbastanza semplice: a Cuaròn non interessa proporre un approccio sociologico, figuriamoci esistenzial-filosofico. Gli importa piuttosto ricreare, in maniera ambiziosa ed imponente, il cinema di Mèliès, quello che ti rapisce per un’ora e mezza e poi ti riporta bruscamente sulla terra, facendoti sentire davvero in un aldiquà, spaziale o temporale. Da questo punto di vista, poco da dire, Gravity è perfettamente riuscito. Il problema sorge dopo, quando ti accorgi che il viaggio, nonostante la partenza sprint, ti ha lasciato ben poco. Come un sogno, che già dieci minuti dopo la sveglia, finisce nell’oblio.
Più che un’opera rivoluzionaria dunque, Gravity dà la sensazione di essere (molti considereranno questo un complimento) l’Avatar degli astronauti: un involucro di straordinaria bellezza, che racchiude un contenuto inconsistente.