Secondo l’ordinamento italiano la libertà di manifestazione del pensiero si colloca al centro tra le libertà individuali e le libertà collettive, ossia la ratio della tutela è rivolta sia nella protezione del singolo nel testimoniare i propri convincimenti, sia nella protezione dell’interesse generale di confrontare e condividere opinioni in modo libero e non vincolato.
La Corte costituzionale ha definito la libertà di manifestazione del pensiero come la “pietra angolare dell’ordine democratico, in quanto condizione essenziale per lo sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale”.
Nella libertà di manifestare il proprio pensiero rientra la libertà di opinione, la libertà di cronaca e anche il diritto al silenzio, cioè il diritto di non manifestare opinioni o commenti.
Tuttavia la “libertà di manifestazione del pensiero” trova dei limiti nelle manifestazioni soggettivamente false, ovvero non conformi a verità, che puniscono le manifestazioni del pensiero che ricadano nel dolo, nella menzogna, nell’inganno, nel raggiro, nella frode, nell’impostura o che ledano il rispetto del comune senso del pudore, l’onore, la reputazione e la riservatezza della persona, la pari dignità sociale di tutti i cittadini.
Recentemente negli Stati uniti la Corte d’Appello di Richmond, ha sostenuto che cliccare su “Mi piace” su Facebook merita le stesse protezioni giuridiche poste a vantaggio della libertà di manifestazione del proprio pensiero.
La sentenza ha trovato una solida base sul “Primo emendamento della Costituzione” degli Stati Uniti che garantisce la terzietà della legge rispetto al culto e il suo libero esercizio, nonché la libertà di parola e stampa; il diritto di riunirsi pacificamente; e il diritto di appellarsi al governo per correggere le ingiustizie.
Quindi un “like”, ovvero un colpo di click, merita la tutela offerta dalla libertà di opinione, allo stesso tempo – un pochino preoccupato vedo l’altra faccia della medaglia – penso: “un like posto in un post diffamatorio, ingiurioso o che viola la legge può essere inteso come condotta che determina il concorso nel reato?”
Infatti l’istituto del concorso di persone nel reato si riferisce alle ipotesi in cui la commissione di un reato sia addebitabile a più soggetti. Il concorso è disciplinato dall’art. 110 c.p. che testualmente recita: “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”.
Quindi una riflessione provocatoria: “nel caso di diffamazione a mezzo stampa il lettore legge l’articolo diffamatorio sul giornale la cui responsabilità ricadrà sull’autore e sul direttore della testata giornalistica, limitandosi solo alla lettura (azione passiva) nel caso invece di like l’apposizione del segno sembra concorrere alla divulgazione del post e alla sua evidenza (azione attiva). Provocatoriamente uesta azione può essere intesa come concorso nel reato?
Ovvio che ci troviamo davanti a meri esercizi giuridici, l’importante è sapere che i fenomeni sociali legati all’uso delle nuove tecnologie offrono al diritto confini sempre più vasti, nuove sfide, nuove interpretazioni giuridiche che il giurista dovrà risolvere.