Dimissioni in massa dei parlamentari del Pdl per il caso in cui al Senato la Giunta per le elezioni dovesse decidere la decadenza di Silvio Berlusconi, è questo l’ultimatum ventilato negli ultimi giorni dagli esponenti del Popolo della Libertà, pronti a “decadere” insieme col proprio leader pur di impedire quello che viene da loro descritto come un “colpo di Stato” politico-giudiziario. Parole, quelle usate da alcuni nel Pdl, che non sono piaciute né al governo e né al Quirinale. Una foga, quella dei “falchi”, che non ha risparmiato nemmeno lo stesso Giorgio Napolitano, oggetto di un duro attacco da parte di Daniela Santanché. “Con noi Napolitano usa arroganza, sono pentita di averlo votato” ha dichiarato la più irriducibile tra i fedelissimi del Cavaliere.
E se il Partito democratico ha ribadito la propria linea di fermezza sulla questione, secondo la quale “un cittadino condannato in terzo grado di giudizio non può restare in Senato”, l’ormai nuova Forza Italia non ha esitato a mettere in difficoltà il Presidente del consiglio Enrico Letta, proprio mentre questi era a New York per l’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Subito dopo il rientro a Roma non si è fatta attendere la reazione del premier, il quale parlando di “umiliazione per l’Italia” ha addossato proprio al Pdl il mancato accordo che ha portato all’aumento dell’Iva. “Sono stufo, e Napolitano è con me, di questi ricatti sulla vicenda giudiziaria di Berlusconi. A pagarne il prezzo sono gli italiani” ha detto Letta, il quale ha anche avvertito: “non ho alcuna intenzione di vivacchiare o di farmi logorare. O si rilancia il governo o è finita”.
Il Presidente Napolitano, dal canto suo, ha colto un incontro organizzato alla Bocconi in ricordo del docente e parlamentare Luigi Spaventa, per richiamare la politica alle proprie responsabilità. “Luigi Spaventa si impegnò in Parlamento dal 1976 al 1983” ha ricordato il Capo dello Stato, “due legislature entrambe accorciate, prassi molto italiana come sappiamo, da scioglimenti precoci delle Camere”. Un riferimento evidente alle fibrillazioni di questi giorni.
Secondo Napolitano, lo scontro tra opposte fazioni è divenuto causa di “smarrimento di ogni nozione di confronto civile, e di ogni costume di rispetto istituzionale e personale” e, riferendosi agli anni dell’impegno politico di Spaventa, il Presidente della Repubblica si è chiesto cosa rimane oggi “di quel modo di vivere la politica e anche del modo in cui, di conseguenza, si vedeva dall’esterno il mondo della politica” specificando: “parlo qui della politica come consapevolezza dell’interesse generale, senso del dovere civico, percezione responsabile dei problemi della società e dello Stato, perché di questa dimensione, propria del vivere in democrazia, ogni cittadino dovrebbe essere partecipe”.
Fra il Colle e l’uomo che ha guidato per vent’anni il centrodestra, punto decisivo di disaccordo, oltre alla insistente sovrapposizione tra la possibile decadenza da senatore e l’attività del governo, sembra essere il rispetto del ‘giudicato’ e quindi della magistratura stessa. Una magistratura definita da Berlusconi “non più organo dello Stato” ma “potere politico” in grado di sbarazzarsi per via processuale dei propri avversari: il Caf nel ’92 il centrodestra dal ‘94. Ed è proprio il rifiuto di limitarsi a prendere atto della condanna per frode fiscale, a rendere impraticabile a Napolitano la strada della grazia, la quale se a detta di molti potrebbe sbloccare l’attuale situazione di stallo finirebbe anche per eccitare le opposizioni. In caso di un tale salvacondotto infatti, il Movimento di Beppe Grillo aveva prospettato addirittura l’impeachment, la messa in stato d’accusa del Capo dello Stato da parte del Parlamento.