Anche il manoscritto di un premio Nobel può essere rifiutato e rispedito al mittente. È accaduto a La mia vita nell’arena con Donald Ogden Stewart, racconto inedito di Ernest Hemingway, ambientato in una fiesta di Pamplona, ovvero nella corrida di popolo che si svolge tradizionalmente ogni estate nella città spagnola. Un rifiuto durato quasi novant’anni.
La stessa sorte sembra sia toccata anche ad altri grandi della letteratura. Il manoscritto del primo libro su Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle tornò più volte al mittente senza nemmeno essere letto e T.S. Eliot non fu gradito all’editore inglese Lane perché non apparteneva “al genere che teniamo aggiungere al nostro catalogo“. La fattoria degli animali di Orwell subì una vera e propria censura politica e Proust, respinto da Gide e non disposto a ricevere consigli consigli e pareri tecnici, pagò pur di vedere le sue opere pubblicate, esattamente come Moravia per Gli indifferenti, nel 1929. Fino a Nabokov, ormai deciso a distruggere la sua Lolita quando gli venne proposto di porre rimedio al manoscritto trasformando la protagonista in un ragazzino di 12 anni destinato ad essere sedotto.
Le cinque pagine, ideate mentre ultimava Fiesta e Torrenti di primavera, sono state ritrovate insieme a una lettera autografa del grande romanziere, ottant’anni dopo essere state scritte. Era il 1924, Hemingway partecipa alla fiesta con Donald Stewart, scrittore e sceneggiatore statunitense al quale il premio Nobel si ispirò per tratteggiare il personaggio di Bill Gorton in The sun also rises (Fiesta nell’edizione italiana), il primo romanzo dello scrittore americano, nato dal ricordo di quella corrida.
Un incontro ravvicinato tra Donald Stewart e un toro scatenato per le vie della cittadina, offrì al giornalista premio Pulitzer anche lo spunto per scrivere anche un breve racconto umoristico e proporlo, tramite lo stesso Stewart, alla rivista Vanity Fair per la pubblicazione. La rivista obiettò un secco no. Le carte finiscono nel fondo di un cassetto in casa di Stewart insieme a una lettera autografata dallo stesso Hemingway e lì rimangono, fino al recente ritrovamento nel 2004.
La stessa rivista che lo aveva bocciato ora si è fatta avanti chiedendo agli eredi i diritti per stamparlo ma questa volta è lei a incontrare l’opposizione da parte del figlio di Hemingway, Patrick: “Io non sono un grande fan di Vanity Fair” -ha dichiarato al giornale britannico The indipendent– “È una sorta di rivista per pensatori di lusso, per persone che ottengono la loro soddisfazione guidando una Jaguar al posto di una Mini“. La Fondazione Hemingway, che sovraintende ai diritti dello scrittore, insiste sulla necessità di fare molta attenzione quando vengono ritrovati degli inediti. La domanda che occorre porsi preliminarmente è: “Se Hemingway fosse vivo, avrebbe voluto che la storia fosse pubblicata in una rivista come Vanity Fair, o avrebbe voluto destinarla a un tipo di analisi erudita che mostri come uno scrittore si evolve?”
A ottobre vedrà la luce sul magazine americano Harper’s magazine. In Italia dovremo aspettare il secondo volume delle Lettere di Ernest Hemingway – 1923-1925, che sarà pubblicato entro l’anno. “Che ci crediate o no, Hemingway sapeva essere umoristico” – sottolinea il figlio Patrick – “Si è ispirato a Mark Twain“. Imme precisa anche che secondo lui “la storia non ha alcun valore letterario“. Chissà come avrebbe reagito a questa mancanza di fiducia. Probabilmente avrebbe fatto un sorriso. Essenziale, non troppo marcato. Proprio come la sua scrittura. E poi si sarebbe immerso di nuovo nella pagina tutta da scrivere per cercare quell’unica parola perfetta e possibile nel contesto, come l’attività giornalistica gli aveva insegnato.