Da qualche tempo economisti ed esperti del mercato del lavoro sono impegnati in un nuovo dibattito che cerca di far luce su un aspetto inedito della crisi 2008-2013, e più in generale sul problema del calo di occupazione che si è registrato dal 2000 nei paesi tecnologicamente avanzati.
Lo scontro dialettico è incentrato sui risultati della ricerca condotta da due docenti dell’MIT Sloan School of Management, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, che nel 2011 hanno pubblicato il libro Race Against the Machine, dove sostengono che le nuove ondate di automazione industriale e le tecnologie informatiche distruggono vecchi posti di lavoro più velocemente di quanti non ne riescano a creare.
La creazione di “valore” nei sistemi produttivi dei paesi occidentali è da sempre e in larga parte proveniente delle innovazioni tecnologiche, che permettono di produrre di più ad un costo inferiore.
In particolar modo, a partire da Unimate, il primo robot industriale installato sulla catena di montaggio della General Motors nel 1961, sono state le case automobilistiche ad impiegare massicciamente i robot sulle linee di assemblaggio.
Anche Fiat perseguì negli anni ’80 un piano di automazione spinta delle proprie fabbriche, a tal punto che vi furono “tecnici di produzione che puntavano a realizzare stabilimenti dove non c’era nemmeno bisogno di accendere la luce, perché erano interamente automatizzati”, come rammenta Gallino in un articolo su La Repubblica.
Ma questo sogno pantecnologico di escludere del tutto l’operaio dalla fabbrica si scontrò con l’immaturità delle tecnologie utilizzate, inefficienti in alcuni compiti a tal punto che le vetture scartate a fondo linea arrivarono a toccare picchi del 35% nello stabilimento di Cassino (cfr. “Lo spirito Fiat degli anni ’90” di G. Polo, in “Cento…e uno anni di Fiat”, di A.Moscato, 2000).
Ne seguì che, nel contesto del programma di “Qualità Totale” lanciato da Romiti dalla fine degli anni ’80 per la progettazione del nuovo stabilimento di Melfi, si puntò più sull’organizzazione del lavoro che non sulla completa automazione dello stesso: un riconoscimento esplicito del fatto che in molte attività i lavoratori umani ancora eccellevano sui robot.
Dopo più di vent’anni, le critiche alla tesi di Brynjolfsson e McAfee sono ancora basate sulla medesima constatazione: l’intelligenza artificiale dei robot non è ancora sufficientemente sviluppata da permettere loro di essere completamente autonomi nello svolgimento di mansioni svolte ora dall’uomo. Infatti, le recenti innovazioni nel campo della robotica industriale sono finalizzate a realizzare robot che siano in grado di affiancarsi agli operatori umani – piuttosto che soppiantarli del tutto.
Anche l’amministrazione Obama considera l’innovazione tecnologica come l’unico strumento che può permettere agli USA di rimanere competitivi rispetto a quei paesi dove il costo del lavoro è molto più basso. Tant’è vero che la Ford ha potuto riportare circa 2000 posti di lavoro negli Stati Uniti. Altro caso celebre è Tesla Motors, che produce ed assembla la famosa Model S elettrica in una fabbrica USA dove trovano impiego 160 robot e 3000 lavoratori.
Dunque, sebbene i robot in una qualche misura diminuiscano l’occupazione, questo fenomeno è oggi certamente preferibile alla completa delocalizzazione della produzione nei paesi dell’Estremo Oriente.
Se le tute blu per il momento possono tirare un sospiro di sollievo, i colletti bianchi non possono dirsi immuni dalla minaccia tecnologica prospettata da Brynjolfsson e McAfee.
I due autori infatti ipotizzano che l’accelerazione dell’efficacia delle tecnologie informatiche provocherà una perdita definitiva di posti di lavoro anche in quelle attività produttive dove tradizionalmente la creatività e la flessibilità umana erano imprescindibili – si pensi ai settori legale, finanziario, educativo e medico.
Celebre è il caso di Watson, il super-computer dell’IBM che ha battuto i concorrenti umani del quiz televisivo statunitense Jeopardy! IBM sta ora istruendo Watson in modo che possa trovare applicazione in campo medico; tuttavia la stessa IBM ha riconosciuto che per ora è prematuro supporre di affiancare Watson a un’équipe di medici nel loro lavoro quotidiano, e che per il momento ci si limiterà a impiegarlo nei call center.
Non esiste quindi una chiara prova che lo scenario drammatico descritto dai due docenti dell’MIT sia davvero alle porte. Se la storia, come spesso accade, si ripeterà, anche a fronte di rivoluzioni tecnologiche importanti i lavoratori e gli imprenditori sapranno trovare nuove opportunità.
[Fonte: MIT Technology Review]