Privacy sotto attacco. La tecnologia è colpevole?

Tutti i cambiamenti che avvengono nel mondo, inclusi progresso ed innovazione, generano degli effetti collaterali, quelle che in economia vengono chiamate esternalità, e possono essere sia positive che negative.
Non ci sorprende dunque che le rivoluzioni della new economy siano fatte necessariamente a scapito di qualcuna delle variabili in gioco. Una di queste è la privacy e cioè il diritto di ogni individuo a vedere tutelate le proprie informazioni più riservate.

Le innovazioni tecnologiche e della rete generano tutte delle preoccupazioni riguardo la tutela della privacy in quanto più gli individui decidono di far “viaggiare” le loro informazioni personali in rete, più c’è il rischio che queste vengano usate per scopi non proprio etici.
La maggiorparte dei servizi web di cui usufriamo gratuitamente si basano proprio sul meccanismo di “vendere” la propria privacy in cambio di un prodotto gratuito. E fin qui non ci sarebbe niente di male, la pubblicità online è la principale forma di sostentamento dell’economia digitale.

Il problema sorge quando questa massa di informazioni, in costante crescita, comincia a far gola ai governi che vedono le informazioni dei cittadini come uno strumento di forte controllo.
Edward Snowden e il datagate ci hanno insegnato che i governi sono molto più invasivi di quello che dichiarano nei confronti della privacy dei cittadini e che la NSA (National Security Agency) aveva stretto partnership con i principali player dei sistemi di crittografia proprio per avere sempre “la chiave” per accedere ai dati sensibili delle persone.

Evgeny Morozov, un intelletuale bielorusso sensibile al tema, ha criticato spesso la situazione di assedio alla privacy, affermando che stiamo per raggiungere una deriva a causa della mole sterminata di dati che gli apparecchi tecnologici con cui interagiamo consegnano alla rete.
Morozov immagina uno scenario in cui indosseremo scarpe dotate di sensori sulle suole che trasmetteranno alle aziende produttrici dati sui nostri spostamenti, oppure di spazzolini che comunicheranno quante volte ci laviamo i denti.

La vera questione non è dunque se bloccare il progresso tecnologico o meno, ma a che prezzo gestire il compromesso.
Perfino Mark Zuckerberg, fondatore del social network sul quale milioni di utenti ogni giorno rinunciano alla loro privacy pubblicando foto e spostamenti, ha espresso la sua delusione nei confronti del governo Americano colpevole di una pessima conciliazione del binomio sicurezza-privacy.

Il dubbio è che a volte le persone non siano affatto preoccupate della loro privacy. In effetti perché dovremmo preoccuparcene nell’era in cui tutto si condivide in rete?
La risposta sta nell’uso che si fa dei nostri dati, non sulla loro raccolta. Se li usa Google per inviarmi pubblicità mirata mi sta anche bene, visto che mi consente di utilizzare i suoi servizi, ma se lo fa il governo per spiare le mie posizioni sulla politica non mi sta altrettanto bene.

I giorni scorsi ci hanno consegnato l’ennesimo dilemma, di nuovo generato da un avanzamento della tecnologia.
Apple ha presentato il nuovo iPhone 5S dotato di un sensore per la rilevazione delle impronte digitali. Prevedibili i dubbi suscitati dagli osservatori: “E se quei dati finissero su dei server accessibili al governo?
La domanda è legittima e anche se Apple ha assicurato che i dati resteranno sul telefono, si pone il tema della prudenza nel mettere la nostra vita su una specie di “cloud” dal quale i diretti interessati possono attingere in qualsiasi momento.

Dunque noi, attori di questo mondo moderno, piuttosto che guardare nostalgicamente a un passato analogico in cui i fatti nostri rimanevano solo e soltanto i nostri, dovremmo semplicemente renderci consapevoli del valore della privacy ed esercitare il nostro diritto alla tutela ogni qualvolta che essa sia sotto attacco, come avviene di frequente nelle sedi dei parlamenti di diversi paesi quando qualche “paladino” propone con qualche proposta di legge di mettere sotto chiave la rete a beneficio di una ipotetica sicurezza. Ma di chi poi?

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