Avevo 10 anni il 23 maggio del 1992 e non ricordo molto di quel giorno. Ero troppo piccola per capire cosa stava succedendo intorno a me. Ricordo bene invece cosa ho provato passando su quel tratto di autostrada dove dieci anni prima la mafia aveva ucciso Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonino Montinaro e Vito Schifani. Tristezza, tanta. E impotenza.
Le provo ogni volta che l’auto si avvicina allo svincolo di Capaci e i miei occhi incrociano quel monumento di granito rosso e quella costruzione bianca in lontananza da dove partì il comando per far saltare in aria il giudice. “NO ALLA MAFIA” c’è scritto su una delle quattro pareti di quella casina.
“NO ALLA MAFIA” lo urliamo oggi, 21 anni dopo, più forte che mai. Perché non è solo la mafia ad uccidere, ma il silenzio, l’omertà, chinare il capo e fare finta di niente. Se c’è un’eredità morale lasciataci da Giovanni Falcone e dal suo eroico sacrificio è proprio questa: agire. Con i fatti e con le parole, ma non quelle vuote e di facciata che sentiamo uscire dalla bocca di alcuni nostri politici in quei giorni in cui ricordare le vittime della lotta alla criminalità organizzata è d’obbligo. Ma prima che vittime, Falcone e Borsellino sono due “vincitori”, non solo perché hanno decapitato i vertici di Cosa Nostra, consapevoli di star firmando anche la propria condanna a morte. E’ la rivoluzione culturale partita dalla Sicilia e diffusasi all’intera nazione, la loro più grande vittoria. E’ il risveglio delle coscienze, soprattutto dei più giovani, che ogni anno arrivano a Palermo sulle navi della legalità per ricordare e testimoniare che “La mafia non è affatto invincibile. E’ un fatto umano e come tutti i fatti umani, ha un inizio, e avrà anche una fine”. E’ quando smettiamo di credere a questa “possibilità” che Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutti gli uomini uccisi dalle mafie diventano “vittime”, morendo una seconda volta. La loro vittoria, la nostra vittoria, è far sì, insomma, che quella frase non resti solo una scritta su di un muro, ma diventi la guida che traccia il nostro cammino nel silenzio assordante e ipocrita di uno stato che offende la sua dignità preferendo tacere.
Che le stragi di Capaci e Via D’Amelio non fossero solo affari di mafia e che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino siano stati uccisi perché fortemente contrari a qualsiasi forma di accordo tra Cosa Nostra e lo Stato di cui erano fedeli servitori, è l’ipotesi, assai vergognosa, dimostrata dalle recenti indagini della Procura di Palermo sulla presunta trattativa stato-mafia, che costituiranno l’ossatura del processo che si aprirà il prossimo 27 maggio. Perché se gli esecutori materiali delle stragi sono stati assicurati alla giustizia, molti punti oscuri circondano i reali responsabili, quei mandanti delle istituzioni, i cui nomi forse Borsellino aveva appuntato sulla sua agenda rossa, e che con ogni probabilità non pagheranno mai per gli omicidi dei giudici-eroi.