Oggi, gli irlandesi sono chiamati ad esprimersi sulla ratifica di Dublino sul cosiddetto “Fiscal Compact”, le misure decise a marzo, che prevedono una maggiore integrazione delle politiche fiscali, passando per controlli più stringenti sul raggiungimento del pareggio di bilancio nel medio termine. In cambio di queste misure, gli stati membri della UE hanno la possibilità di accedere ai meccanismi di intervento dell’Esm, il Fondo permanente salva-stati, che affiancherà da luglio l’Efsf e che potrà erogare aiuti ai Paesi in difficoltà. La scelta di Dublino sarà importante, anche se più sotto il profilo psicologico e delle conseguenze a breve sugli altri stati semi-periferici dell’Eurozona.
I sondaggi direbbero che i sì al Fiscal Compact potrebbero vincere e anche con un buon margine del 60%. Tuttavia, nulla viene dato per scontato, perché gli stessi sondaggi della vigilia certificavano gli indecisi al 30% degli aventi diritto. Inoltre, si pensa che i sì dovrebbero prevalere più nettamente nelle città, mentre nelle campagne, dove gli effetti della crisi si sono fatti sentire maggiormente, è possibile che molti elettori decidano per non proseguire con ulteriori misure di austerità.
Schierato per il sì e il partito del premier Enda Kenny, mentre il partito identitario Sinn Fein è nettamente per il no. Il primo ministro, in carica dall’inizio dell’anno scorso, ha affermato di essere certa di una vittoria dei sì, perché l’Irlanda è stato sempre uno stato pragmatico sulle cose europee. E un sì al Fiscal Compact significa una maggiore fiducia degli investitori sulle capacità e volontà di risanamento degli irlandesi, accesso agli aiuti dell’Esm, maggiore equilibrio dei conti, a beneficio della crescita nel medio termine. Al contrario, spiega lo stesso premier, se dovessero prevalere i no, gli investitori reagirebbero negativamente e ciò comporterebbe maggiori rendimenti sui titoli di stato celtici, oltre che sul resto della periferia europea. E Dublino non potrebbe avere accesso al Fondo permanente, inasprendo la crisi.
Una cosa è certa: non ci saranno seconde chiamate. Oggi, gli irlandesi decideranno una volta per tutte se aderire o meno al Fiscal Compact. Il referendum è l’unica soluzione proposta e possibile, se dovessero prevalere i no, il governo non ratificherebbe il Trattato.
L’Irlanda è in crisi finanziaria dal 2010, anno in cui si scoprì che l’ex “tigre celtica” possedeva un buco nei suoi conti pubblici del 32%, per effetto, soprattutto, dell’implosione del mercato immobiliare e poi del sistema bancario. Le dure misure di austerità e il salvataggio necessario da parte dell’Europa hanno creato un fortissimo malcontento popolare, sebbene in pochi mesi, Dublino è sembrata in grado di riportare alla normalità la situazione, sebbene resti un deficit di 15 miliardi. Dopo qualche anno di recessione, il Paese risulta già oggi in crescita dello 0,7%, mentre la ripresa dovrebbe irrobustirsi nel 2013, con un buon 2%, per arrivare al 3% del 2014. Un esempio del tutto diverso da quello di Atene, grazie alla molto maggiore credibilità di cui il governo qui gode verso gli investitori stranieri.
Ovviamente, questo non implica che siano tutti rose e fiori. La recessione ha colpito duramente la popolazione, mentre nel Paese cresce la voglia di maggiore autonomia da Bruxelles, ben captata dallo Sinn Fein. Non sono in pochi a volere tornare alla vecchia moneta nazionale, se non altro perché nell’immaginario collettivo ciò significa possibilità di lavare i panni sporchi in casa.
E’ molto probabile che stasera i sì vinceranno e con ciò si avrà una piccola scossa positiva sui mercati di domani, a fronte delle enormi difficoltà incontrate da Atene e ora anche da Madrid nell’affrontare il risanamento dei conti pubblici e nel ricapitalizzare le banche.
Va da sé che se saranno i no a prevalere, aldilà delle scarse implicazioni da un punto di vista legislativo, il problema sarebbe fortemente avvertito dai mercati, che si troverebbero di fronte a una ennesima “fronda” anti-austerity e ciò evidenzierebbe la scarsa credibilità di cui gode la moneta unica.
Ieri, l‘asta dei BTp a 5 e a 10 anni ha segnato una svolta negativa per l’Italia. A fronte di una forte crescita dei rendimenti, specie sulla scadenza quinquennale, la domanda è stata scarsa e il governo non è stato in grado di rifinanziarsi per l’importo massimo previsto. E’ il segnale che siamo quasi ai limiti del livello di allarme rosso. I mercati non hanno più fiducia nell’Eurozona e adesso nemmeno gli alti rendimenti italiani sono sufficienti per garantirsi la copertura dell’intero fabbisogno finanziario previsto.
Ormai, l’Italia da sola può ben poco. L’unica soluzione da trovare è a livello europeo e passa per la messa in sicurezza di Atene e della Spagna, cosa che non sarà affatto facile, specie per il primo caso. A giugno, scadranno 90 miliardi di euro di bond, a fronte di un periodo davvero molto pesante, che si preannuncia con le elezioni politiche greche e con il problema sempre più grave delle banche iberiche. Di certo, se dovesse arrivare anche la mazzata di un no irlandese al Fiscal Compact, che sarebbe sostanzialmente un no all’Europa, allora le cose si complicherebbero ancora di più e sin da domani.