La lezione di Facebook è amara. Quella che avrebbe dovuto essere l’operazione finanziaria più importante del decennio, con lo sbarco in borsa del social network più famoso del pianeta, si è trasformata in pochissime ore in un flop dalle dimensioni imbarazzanti. Era soltanto venerdì scorso, quando a Wall Street, sul circuito Nasdaq, quello che contratta i titoli delle società del circuito internet, si quotava il colosso Facebook, fondato nel 2004 dall’allora studente universitario Mark Zuckenberg e che da allora ha aggregato in rete 900 milioni di persone, attestandosi senza dubbio quale social network più potente sulla Terra.
Accadeva, poi, che c’era tanta attesa ed euforia per l’Ipo, sebbene da diversi mesi i finanzieri di Wall Street, che pure qualcosa la capiranno, avvertivano sui risultati non proprio brillanti della creatura di Zuckenberg, tanto da fare prevedere più di una nube all’orizzonte.
Ma l’euforia a volte prevale sulle fredde ragioni dei numeri e dei bilanci, cosa che non dovrebbe mai e poi mai accadere quando si stima il valore di una società. Perché conti alla mano, che quella di Facebook sarebbe potuta essere un’operazione a rischio flop lo si capiva semplicemente guardando a due numeri e senza il bisogno di una laurea in Business Administration. Ai prezzi con cui la società è entrata in borsa, essa valeva 104 miliardi di euro, mentre i suoi profitti nel 20011 avevano ammontato a un miliardo. In sostanza, si era deciso di valutare Facebook oltre 100 volte in più dei suoi profitti, quando Apple capitalizza circa 19 volte in più, tanto per fare un paragone. E non è tutto. Il primo trimestre dell’anno ha chiuso con un fatturato in crescita del 45%, ma un utile netto in calo del 12%. In altri termini, non s’intravede ad oggi un trend, in grado di giustificare quella che ora come ora sarebbe una pura e semplice sopravvalutazione del titolo.
Già, ma chi aveva fissato il prezzo delle azioni di Facebook? Niente di meno che Morgan Stanley, di cui certo non si potrà dire che sia un istituto incompetente. Eppure, alla vigilia dell’Ipo, la banca non ha trovato di meglio che alzare il prezzo, portandolo dal precedente range annunciato un paio di settimane prima, ossia di 28-35 dollari, alla forchetta tra 34-38 dollari. Non solo. Il numero delle azioni offerte saliva da 337,4 milioni a 421,2 milioni.
Si aumentava allo stesso tempo il prezzo e il quantitativo offerto, cosa che avviene solo quando c’è la certezza di una forte domanda. E dopo una buona prima ora, in cui il titolo si portava, venerdì scorso, fino alla soglia dei 45 dollari, giunge un forte, quanto inquietante, ripiegamento. Le azioni chiudono a 38,23 dollari, sui valori massimi della forchetta fissata per l’Ipo. Non si può ancora parlare di flop, perché il prezzo di chiusura è pur sempre più alto del limite massimo voluto da Morgan Stanley.
Ma la brutta figura arriva con la riapertura delle borse questo lunedì: malgrado Wall Street chiuda positiva, Facebook perde l’11%, dopo avere sfiorato una perdita del 13%, chiudendo a 34 dollari, al limite minimo della forchetta prevista. Ieri, il secondo tracollo consecutivo. Il titolo sprofonda di un altro 8,9%, chiudendo a 30,94 dollari. Siamo già ben distanti dai valori dell’Ipo, con i primi investitori a piangere le perdite. C’è chi aveva acquistato le azioni anche a 45 dollari.
Nel frattempo, il Ceo Zuckenberg comunica che le stime sui ricavi sono negative: molti utenti sono passati dall’utilizzo del social newtork al computer ai tablet e telefonini, dove gli introiti pubblicitari sono inferiori. E’ una previsione di Scott Devitt, analista di internet.
Un colpo al cuore alla credibilità di Morgan Stanley e della stessa Facebook. Perché mai tali comunicazioni arrivano solo successivamente alla quotazione? Non si sapeva già da prima che la società avesse un business affatto florido e poco chiaro anche nelle prospettive?
E i segnali del probabile fallimento c’erano tutti. I grandi investitori, come Goldman Sachs, avevano puntato a vendere grossa parte della quota da loro detenuta fino a venerdì sul circuito secondario, indice che non ci fosse granché fiducia sulla società. La stessa General Motors aveva annunciato il ritiro delle inserzioni su Facebook, a causa di una probabile inefficacia di tale strumento. Infine, i grandi finanzieri avevano annunciato di non trovare appetibili le azioni.
Insomma, gli spunti c’erano. Si sperava solo nell’euforia dei piccoli risparmiatori, ma evidentemente non è bastata. Così come non sono bastati i 900 milioni di utenti, che faranno pure grande Facebook, ma che al momento rendono poco.
E c’è chi, come l’oligarca russo Alisher Usmanov ha già perso 300 milioni. L’uomo più ricco di Russia possiede il 5,5%, attraverso Digital Sky, più un altro 2,3% con Mail.ru. Il crollo di Facebook in borsa ha, quindi, causato una prima vittima illustre in sole tre sedute.
Non è un caso che monti la polemica a Wall Street, perché mai era accaduto che a tre giorni dall’Ipo di una società si comunicassero stime riviste al negativo su di essa. Adesso, dicono tutti, Zuckenberg deve solo fare quadrare i conti, aumentando i ricavi. Altrimenti, dovrà accontentarsi di una capitalizzazione decimata. La società ha già perso circa 14 miliardi di dollari di valore.