I numeri delle urne alle amministrative non hanno lasciato spazio alcuno alle ambiguità e alle furbate interpretative italiane. Il centro-destra rischia di estinguersi, perché i suoi elettori si ritrovano senza un leader, a scegliere tra partiti frammentati e che a Roma votano una cosa, salvo pretendere di rappresentare un certo blocco sociale sul territorio. Adesso sarà molto facile pensare che debba essere solo il segretario del PDL, Angelino Alfano, a rassegnare le dimissioni, quando la questione è molto più ampia. Il segretario ha sbagliato nel dare l’immagine di un partito impotente e appiattito su un fatalismo, per il quale Monti va sostenuto a prescindere.
Dov’era Alfano, quando il governo propose la stangata dell’IMU sulla prima casa e l’inasprimento sulla seconda? Si dirà che l’aumento della tassazione era inevitabile, ma nulla è stato fatto sugli sprechi, che restano tali e quali quelli di sempre.
Alfano ha cercato senza riuscirci di fare il gioco delle tre carte, per cui in Parlamento ha adottato un atteggiamento supino a Monti in qualsiasi occasione, mentre nel Paese andava a rivendicare il ruolo-guida del suo partito dentro la maggioranza inedita e anomala che si è formata a novembre. Gli elettori non gli hanno creduto e non credono a nessun esponente del suo partito, che piange in stile Fornero per il massacro fiscale e per l’inasprimento dei controlli da stato di polizia, salvo poi verificare che li ha votati in toto senza indugio.
Altra considerazione è poi sull’organizzazione inesistente del partito sul territorio. Come si può sperare che un partito, che alle ultime elezioni prese il 37,4% vada avanti senza congressi (veri, non fasulli), senza una classe dirigente, che non sia di fortuna, improvvisata e senza un metodo per selezionarla? L’idea che i voti possano essere attirati con un semplice cambio di nome o con una ristrutturazione del simbolo è una tragica convinzione che non porterà il partito da nessuna parte.
Sono giunti al pettine per il PDL tutte le criticità di cui si parla da anni senza mai affrontarle. Va dato atto ad Alfano di avere tentato di creare un partito “normale”, che andasse oltre il carisma del suo capo e si radicasse sul territorio. Purtroppo, la classe dirigente individuata per fare questo è stata di gran lunga al di sotto del compito che le era stato assegnato e i comuni restano ad oggi in gran parte gestiti da personalità di scarso valore e di limitate capacità di interazione con l’elettorato.
L’altra lezione che emerge dalle urne è che il centro-destra deve restare unito, perché quando si frammenta in più componenti, ognuna diventa inconcludente e nessuna fa risultato. Questo vale per la Lega e l’UDC, che in questa fase hanno scelto la via solitaria, la quale le punisce in modo vistoso.
Il Carroccio soffre pure nelle sue roccheforti e solo l’ottimo risultato (personale) di Flavio Tosi a Verona evita il tracollo completo, che altrimenti sarebbe stato evidenziato da tutti. Casini, invece, finge soddisfazione per un risultato che, al contrario, sottolinea come il Terzo Polo non solo non esista nei fatti, essendosi presentato diviso un pò in ogni realtà, ma esso non riesce a raccogliere minimamente il voto in uscita dal PDL, che si rifugia grosso modo nell’astensionismo.
Il leader UDC rilancia il superamento del partito e la nascita del Partito della Nazione, progetto, tuttavia, che ieri è stato abortito alle urne, con queste ultime che pongono i centristi davanti alla scelta di che coalizione scegliere. Il giochetto di Casini di tirare la corda in questi ultimi quattro anni ha spesso funzionato e dato i suoi frutti, ma ora ha stancato gli stessi elettori, che non sanno se il loro partito andrà a destra o a sinistra.
E nel tentativo di rincorrere i centristi, il PDL ha smarrito sé stesso in grosse realtà come Palermo, dove non ha presentato un proprio candidato, limitandosi ad appoggiare quello dell’UDC, o Verona, dove si è imbattuto nella scelta sciagurata di rompere con il popolarissimo Tosi, che ha stravinto senza di esso, svuotandolo di voti.
Oggi, Alfano potrebbe dimettersi, ma non è detto che le dimissioni saranno accettate. In ogni caso, se si continuerà in una gestione del partito improntata agli annunci di rivoluzioni future, senza incassare risultati soddisfacenti sul fronte del governo e senza rimettere in discussione dal profondo la propria classe dirigente, nel 2013 ad essere inevitabile non sarà la sconfitta, bensì la scomparsa.
Soprattutto, dovrò essere evitata l’eterna opposizione interna tra fazioni, correnti pseudo-politiche e molto personalistiche, che danno il senso di una formazione nel caos, che necessita sempre del capo storico, se non vuole finire nel nulla e ad ogni livello.
L’andazzo non è stato positivo e il rapporto acritico verso il governo è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non si può puntare sul voto degli autonomi, degli imprenditori e del ceto medio, avendoli spremuti senza ritegno, appoggiando le misure bolsceviche del governo. Da oggi non sarà più accettata alcuna contraddizione.