L’Eurozona, nel suo complesso, quest’anno dovrebbe crescere appena sopra lo zero, mentre alcune sue economie, tra cui Italia, Spagna e Grecia saranno in profonda recessione. Il nostro pil, ad esempio, dovrebbe scendere sul 2011 di non meno dell’1,6%, ma qualche studio si spinge oltre, pronosticando un tracollo fino al 2,5%. Effetto di un contraccolpo violento delle tensioni finanziarie, che si sono ripercosse parimenti su produzione e occupazione, specie per effetto del venire meno del credito da parte delle banche. Poca liquidità, insomma, che ha impedito in questi mesi non solo di effettuare i nuovi investimenti delle imprese (quasi del tutto inesistenti), ma anche di pagare gli stipendi, i fornitori, di procedere, per dirla in breve, con l’ordinaria amministrazione della vita aziendale.
Per questo, il governatore Mario Draghi, sin da quando si è insediato a novembre a Francoforte, ha voluto inviare ai mercati un messaggio di sostegno della BCE alla liquidità, pur nei limiti stringenti previsti dallo statuto della banca.
E così, a fine dicembre 2011, la BCE ha dato vita alla prima asta Ltro (Long Term Rifinancing Operation), ossia a una forma inedita di prestiti a rubinetto per le banche dell’Eurozona, con durata fino a tre anni e al tasso agevolato dell’1%. Alla prima asta avevano partecipato 523 istituti di credito, mentre a fine febbraio fu decisa una seconda, a cui aderirono 800 banche e che portava a mille miliardi complessivi il fiume di prestiti erogati in favore degli istituti europei. Di questi, oltre un quarto, cioè più di 250 miliardi sono andati in favore delle banche italiane, ma ad oggi non pare che l’economia reale ne sia stata anche solo parzialmente beneficiata.
Spieghiamo, anzitutto, che le aste Ltro sono state operazioni di rifinanziamento, che presupponevano la concessione da parte delle banche finanziate di un collaterale come garanzia. I titoli che hanno funto da collaterale sono stati quelli pubblici. In sostanza, le banche hanno potuto attingere ai prestiti BCE agevolati all’1%, cedendo come garanzia i titoli di stato nel loro portafoglio.
E’ accaduto, quindi, che per avere la possibilità di richiedere finanziamenti illimitati alla BCE, le banche hanno acquistato titoli di stato un pò prima dell’asta di dicembre e della successiva di fine febbraio, con ciò spiegando il motivo per cui, soprattutto, da dicembre a febbraio, il corso dei titoli di stato italiani è risalito e i rendimenti sono scesi. Infatti, se a dicembre le banche italiane avevano acquistato BoT e BTp per un controvalore complessivo di 4 miliardi, a febbraio gli importi erano saliti a 26 miliardi.
L’operazione per le banche italiane è stata conveniente sotto due punti di vista. Per primo, esse hanno così potuto chiedere alla BCE prestiti a tassi molto convenienti. Secondo, acquistando titoli italiani, hanno potuto anche lucrare sulla differenza di rendimento tra questi e i prestiti BCE. Infatti, a Francoforte dovranno dare solo l’1% annuo sugli oltre 250 miliardi ricevuti, mentre dai bond pubblici riceveranno mediamente un rendimento lordo di non meno del 4,5-5%.
Nulla di male, se non fosse che ancora una volta abbiamo più di una semplice sensazione che si sia trattato di una pura operazione finanziaria, avallata dalla BCE, senza che vi siano state ripercussioni positive per l’economia reale. Come qualche analista aveva previsto, infatti, dopo l’asta di fine febbraio, i rendimenti dei nostri bond hanno iniziato di nuovo a crescere, perché sono finite le ragioni per acquistare i nostri titoli di stato.
Lo spread si è riallargato e all’asta il Tesoro è costretto adesso a pagare rendimenti più alti di un mese fa, addirittura, doppi su marzo, come è accaduto ai BoT a un anno.
Ora, se in relazione ai circa 520 miliardi ottenuti all’asta di fine dicembre si era pronosticato un utilizzo di questi fondi a fini quasi puramente contabili, diversa era stata la previsione per la tranche erogata un mese e mezzo fa. Aggiustati i bilanci e coperte le svalutazioni contabili, si era sperato che buona parte della nuova liquidità arrivasse alle imprese, ma niente.
A febbraio, i prestiti delle banche alle famiglie sono diminuiti del 2% su gennaio e del 3,7% su dicembre, mentre l’arrivo dell’immensa liquidità non solo non ha attenuato i tassi, ma questi sono persino cresciuti, con i tassi sui mutui casa passati in un anno dal 3,3% al 4,61% medio.
In poche parole, famiglie e imprese non si sono affatto giovati delle aste BCE, che hanno, anzi, aggravato il rapporto perverso tra stato e banche, legando queste ultime ancora di più al destino dei bilanci pubblici. Non è casuale, quindi, che finita la sbornia del nuovo banchetto di fine febbraio, i mercati siano tornati timorosi sulle ripercussioni che i problemi di finanza pubblica avranno sugli istituti europei. E l’allargamento degli spread semi-periferici, rispetto ai “benchmark” tedeschi è il segnale allarmante del fallimento delle operazioni di Draghi, come era stato facilmente previsto anche dai tedeschi, con il componente del board, Joerg Asmussen, che ha già annunciato il suo no a una ipotetica terza asta.
Ancora una volta, l’Europa salva le banche, dimenticando le condizioni disastrose alle quali la cattiva finanza ha lasciato l’economia reale.