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Accordo legge elettorale: niente preferenze e riduzione parlamentari. Ma sarà vero?

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Giuseppe Timpone

Il vertice dell’ABC (Alfano-Bersani-Casini) avrebbe trovato ieri pomeriggio la quadra sulla nuova legge elettorale. E’ quanto hanno riportato un pò tutte le agenzie di stampa, sebbene andando ad analizzare quanto avvenuto concretamente, si scopre che si tratta dell’ennesima intesa di massima, di cui molto probabilmente non si farà nulla. L’incontro tra i leader della maggioranza che sostiene Monti è avvenuto presso lo studio dell’ex premier Silvio Berlusconi, alle spalle del Transatlantico, a Montecitorio.

Presenti al vertice erano per il PD, oltre al segretario, anche Luciano Violante, proponente della famosa bozza sulla revisione della Costituzione. Per il PDL c’erano anche il vice-capogruppo alla Camera, Gaetano Quagliarello, e il coordinatore Ignazio La Russa. Per il Terzo Polo, Italo Bocchino, Ferdinando Adornato e Pino Pisicchio.

Oggetto dell’atteso incontro era la nuova legge elettorale, perché a chiacchiere nessuno vorrebbe tornare al voto tra un anno con l’attuale Porcellum. E allora i tre partiti avrebbero trovato un’intesa minima su alcuni punti, senza però dare un quadro chiaro del nuovo assetto politico e istituzionale che verrà, se verrà. Anzitutto, nuovo sistema elettorale: via i nominati dal Parlamento, ma non tornerebbero le preferenze. Si andrebbe, invece, per dirla alla La Russa, verso un modello tedesco bipolarizzato, nel senso che la scelta dei cittadini avverrebbe nei collegi, che a questo punto dovrebbero essere di dimensioni inferiori. Ma come? Non è dato saperlo. Sappiamo, invece, che verrebbe introdotta una soglia di sbarramento per accedere in Parlamento non inferiore al 4-5%, ma i piccoli partiti, che non sono riusciti a farsi eleggere, potranno avere una sorta di diritto di tribuna; la solita fuffa all’italiana per accontentare anche coloro che non sono riusciti a farsi votare nemmeno dalle loro famiglie. E ancora: niente obbligo di coalizione, ma ciascun partito dovrà indicare il candidato premier prima del voto. Infine, premio di maggioranza per i primi due partiti più grossi.

Ma nell’ambito del riordino delle istituzioni, si è parlato anche della riduzione del numero dei parlamentari. Passerebbero da 630 a 500 deputati alla Camera e da 315 a 250 senatori a Palazzo Madama. In tutto, da 945 a 750 parlamentari. Non siamo a livelli accettabili, ma qualcosina si farebbe. E si è parlato e trovato un’intesa anche sull’eliminazione del bicameralismo perfetto, nel senso che le due Camere non sarebbero più l’una la copia dell’altra.

Il presidente del Senato, Renato Schifani, uscendo da un incontro con il capo dello stato, Giorgio Napolitano, avvenuto al Quirinale, ha commentato soddisfatto l’esito del vertice, annunciando che si attiverà immediatamente per fare in modo che il frutto dell’intesa di ieri abbia un seguito sui lavori di Palazzo Madama.

Anche il Colle benedice l’intesa, che se non altro allungherebbe il brodo in cui galleggia il governo Monti. Già, perché alla fine della parole roboanti pronunciate ieri non si farà quasi certamente nulla. E per vari motivi. Già nel PD si registrano resistenze all’adozione del sistema tedesco, che metterebbe la parola fine all’esperienza delle coalizioni dichiarate prima del voto. Non è un caso che i commenti più negativi all’accordo siano provenuti da Idv e Lega Nord. Massimo Donadi, ad esempio, ha affermato che si tratterebbe di una truffa, mentre per il Carroccio parla Roberto Calderoli, che dice di volere prima vedere le carte, perché finora ha visto solo bari o illusionisti. Anche Roberto Maroni è rimasto stupefatto dalla rinuncia alle coalizioni, parlando di vera “porcata”.

Ma da qui a quando i parlamentari dovrebbero effettivamente andare a discutere delle riforme istituzionali e sulla nuova legge elettorale non solo passerà tempo, ma ci saranno molte insidie. E una di queste si chiama voto anticipato. Il PD non lo reclama esplicitamente, anzi, tenta di mostrarsi compatto attorno al governo Monti, ma ci sono due ragioni essenziali per cui le cose stanno diversamente. La prima è che Bersani & Co non hanno alcuna intenzione di votare la riforma del mercato del lavoro, che farebbe tracollare il loro partito tra l’elettorato più ideologico della sinistra e in favore di estremisti come Sel e Idv. Secondo motivo: il PD continua a perdere consensi nei sondaggi, scendendo di ben quattro punti percentuali in un solo mese, quando il PDL mostra se non un chiaro trend di recupero, almeno l’arrestarsi della discesa. Ergo: prima si vota per i Democratici, meglio è. Il rischio è di trovarsi nel 2013 senza un’argomentazione specifica. Tra un anno, infatti, sarà passata da 18 mesi l’esperienza del governo Berlusconi e il PD sarà considerato dagli elettori alla stregua del PDL, in termini di responsabilità di governo.

L’ex premier Berlusconi, che ha fiuto sulla china degli eventi, avrebbe impartito ai suoi l’ordine di sostenere Monti ad ogni costo. Una caduta del governo in queste settimane avrebbe conseguenze imprevedibili sulla tenuta del PDL, che andrebbe alle urne senza un chiaro alleato e in una fase drammatica di perdita del consenso. In dodici mesi, al contrario, il centro-destra punta a trovare un’intesa con l’UDC e a rilanciare la sua immagine molto appannata.

 

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Giuseppe Timpone