Il tema della riforma del mercato del lavoro sta mettendo in subbuglio la politica italiana, dopo che il governo ha presentato un testo, che prevede anche di rivedere alcune previsioni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, nella parte in cui si prescrive l’obbligo di reintegro per i lavoratori licenziati senza giusta causa. In particolare, si andrebbe verso una integrale sostituzione del reintegro con un risarcimento indennitario per i casi di problemi economici dell’azienda e la possibilità per il giudice di scegliere tra reintegro e risarcimento per i casi disciplinari. Inutile ribadire che l’argomento è molto delicato, anche perché coinvolge direttamente la sfera ideologica dei partiti e dei sindacati italiani.
E dopo che la Cgil ha promesso di scatenare l’inferno nelle piazze, con la Fiom, il suo braccio metalmeccanico, che preannuncia battaglia a tutto campo, l’Idv dal canto suo lascia intravedere una “vietnamizzazione” dei lavori parlamentari, insomma una guerra di emendamenti e di ostruzionismo, con l’obiettivo di catalizzare i consensi degli oppositori alla riforma.
Altrettanto inutile poi verificare lo stato confusionale del Partito Democratico, stretto nella morsa tra quanti al suo interno spingono per una svolta riformatrice e quanti, al contrario, lo invitano a non scollarsi dall’armamentario ideologico della sinistra post-comunista, inseguendo le posizioni radicali della Cgil. Il segretario Pierluigi Bersani non sa che pesci prendere, perché è evidente che votare contro la riforma in Parlamento significherebbe precipitare nel buio, nell’ignoto, in quanto la mossa corrisponderebbe a staccare la spina al governo Monti, assumendosi la responsabilità di rompere con i centristi sul sostegno all’esecutivo tecnico, con il rischio di andare a sbattere contro una campagna elettorale in cui si verrà tacciati di irresponsabilità. C’è di più: sulla riforma del lavoro è intervenuto in prima persona il capo dello stato, Giorgio Napolitano, che ci ha messo il cappello con quella battuta “non penso che abbiamo aperto le porte a una valanga di licenziamenti”. Tradire anche le attese del Quirinale, peraltro, un uomo della sinistra, sarebbe per il PD la perdita anche di ogni aggancio istituzionale. E per fare cosa? Per presentarsi al voto con Tonino Di Pietro e il suo disco rotto su Berlusconi e un Nichi Vendola, che divora il PD alla sua sinistra?
Ipotesi alternativa. Il PD vota la riforma in Parlamento, ma sperando nell’ammorbidimento sull’articolo 18. Pura fantasia. La riforma ha un senso solo se viene rivisto anche l’articolo 18, altrimenti diverrebbe una sorta di irrigidimento ulteriore del mercato, spinto verso le assunzioni a tempo indeterminato, ma i cui contratti rimarrebbero tali e quali quelli di adesso. Non è affatto un caso che il segretario del PDL, Angelino Alfano, intervenendo sul punto abbia affermato che o si fa una buona riforma o altrimenti è meglio lasciare tutto com’è.
Già, perché l’ipotesi che nulla cambi e tutto resti come oggi non è più una speranza vana della Cgil di Susanna Camusso. O entro pochi giorni si trovano le condizioni politiche per arrivare al voto dell’accordo tra le parti sociali, o tutto cadrà nel nulla.
Il cerino è acceso nelle mani del PD, che è colto da una crisi di nervi. L’idea di dovere votare una riforma che porterà il partito ad essere duramente contestato dalla propria base sta creando un profondo panico tra la segreteria di Bersani, che mostra unità, ma che non riesce a trovare la soluzione per sottrarsi al ruolo pubblico di ago della bilancia della situazione.
Idv e Sel sono prontissime a guidare il fronte dei contrari alla riforma, sottraendo al PD elettori e lo stesso humus ideologico di cui si è nutrito fino a qualche mese fa in funzione anti-berlusconiana.
Adesso, a mettere con le spalle al muro Bersani & Co ci ha pensato niente di meno che il premier Mario Monti, il quale dalla Cina, dove si trova in visita ufficiale, ha affermato per la prima volta da quando siede a Palazzo Chigi che se il Paese non è pronto, il governo non tirerà a campare. Una minaccia chiarissima di dimissioni, qualora la riforma non dovesse essere approvata in Parlamento. Dopo tutto, oltre a perderci la faccia nel Belpaese, la crisi di credibilità dei tecnici sarebbe irrimediabilmente compromessa proprio in Europa, visto che la rivisitazione delle leggi sul lavoro fanno parte dei famosi 39 punti della lettera BCE.
Ma sono realistiche le dimissioni di Monti, ora che lo spread sembra essere rientrato e che s’intravede una schiarita sui mercati finanziari? Diciamo che nel caso in cui si arrivasse a una rottura sul lavoro, il PD non potrebbe restare un minuto in più in maggioranza e ciò porterebbe inevitabilmente a una crisi di governo, visto che i numeri per governare non ci sarebbero. L’ipotesi di un esecutivo di minoranza, cioè che sopravviva da qui al 2013, nonostante un appoggio non ufficiale del PD, per quanto suggestiva, sembra poco realizzabile, perché il partito di Bersani sarebbe travolto da una sua stessa crisi interna, restando per mesi nel guado.
E allora, scartando l’ipotesi estrema di andare alle urne questa stessa primavera e nella consapevolezza che durante il semestre bianco (gli ultimi sei mesi di presidenza), che inizierà a novembre, Napolitano non potrà sciogliere le Camere, per via del divieto costituzionale, resta sullo sfondo la possibilità che si vada al voto ad ottobre.