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Iran al voto. Scontro tra ayatollah Khamenei e Ahmadinejad

Published by
Giuseppe Timpone

Oggi, 48 milioni di iraniani sono chiamati a rinnovare i 290 seggi in palio per il Majlis, il Parlamento di Teheran. Sono 3.440 i candidati, scremati dalle selezione per nulla trasparente che l’ayatollah Khamenei effettua prima di qualsiasi tornata elettorale, al fine di preservare la purezza della rivoluzione islamica del 1979. Da allora, questo voto è il nono e si annuncia molto delicato, perché cade in una fase particolare della storia politica interna e nei rapporti internazionali dell’Iran. Non è un caso che ieri la Guida spirituale abbia fatto inviare a tutti gli elettori un sms, nel quale si invita tutti ad andare alle urne, perché nel caso di un’affluenza ai seggi inferiore al 50%, il nemico americano potrebbe decidere di attaccare il Paese, scorgendo nel dato una debolezza dello stato.

E tutti i sei canali pubblici martellano continuamente l’opinione pubblica con messaggi che invitano a recarsi ai seggi. Tra i circoli conservatori si pone intorno al 65% il tasso di partecipazione accettabile e al di sotto del quale sarebbe un flop per l’ayatollah.

In realtà, tra le formazioni riformiste si presume che non andrà a votare oltre un quarto degli aventi diritto, ma gli oppositori al regime spirituale e islamista sostengono che Khamenei avrebbe già fissato tra il 50 e il 70% il dato ufficiale dell’affluenza. Insomma, sarebbe tutto truccato e pre-confezionato. Non è un caso che i riformisti dell’Onda Verde, il movimento di protesta che alla fine del 2009 scosse le piazze della Repubblica islamica e che fu represso con la violenza del regime, inviti apertamente tutti i suoi elettori al boicottaggio. D’altronde, i due leader Hossein Moussavi e Mehdi Karoubi sono agli arresti in carcere e certamente sarebbero stati esclusi dal voto.

Per questo, il regime teme che vadano al voto poche persone, perché potenzialmente metà degli elettori sarebbe con i riformisti e il dissenso. Tuttavia, la sfida è meno chiara di quanto si potrebbe pensare all’estero. Non c’è soltanto la classica contrapposizione tra riformisti e religiosi, ma da un paio di anni è venuta alla luce pure la sfida prima sotterranea tra il presidente Ahmadinejad e il capo spirituale iraniano.

Il primo viene accusato dal secondo di progettare una contro-rivoluzione laicista e nazionalista. Per questo, Khamenei ha fatto terra bruciata attorno al capo dello stato, mettendo agli arresti suoi uomini di fiducia con accuse di complotto e corruzione.

Paradossalmente, quello che in Occidente viene avvertito come un presidente estremista e fonte di pericolo per l’intero pianeta, al momento sarebbe colui, il cui rafforzamento in patria potrebbe mettere a tacere le spinte estremiste e islamiste presenti nel Paese e un suo eventuale successo allontanerebbe anche il rischio di un prosieguo del programma nucleare, sostenuto fortemente dall’ayatollah.

Le ruggini tra i due sono esplose nel 2009, proprio per la rielezione di Ahmadinejad. Quest’ultimo era salito alla massima carica dello stato nel 2005, con un voto poco limpido e con un sostegno di ferro dell’ayatollah Khamenei, deciso a impedire una presidenza riformista.

Quattro anni dopo, la sua rielezione fu accompagnata con proteste e disordini di piazza dell’Onda Verde, che il regime represse nel sangue. Tuttavia, in quell’occasione, Ahmadinejad auspicò e invocò dinnanzi alla Guida una politica morbida, per evitare che il malcontento degenerasse e arrivò anche a chiedere che venissero ascoltate le ragioni dei ragazzi che protestavano. Le sue invocazioni trovarono come risposta un umiliante schiaffo dell’ayatollah, cosa che avvenne dinnanzi ai massimi vertici dello stato.

Da allora, il gelo. Adesso, il presidente potrebbe cercare una sponda tra gli avversari riformisti, al fine di fare fronte comune contro la Guida. Lo scenario interno, peraltro, s’interseca con la situazione delicata dei rapporti internazionali, dopo che l’ostinata prosecuzione dei programmi nucleari hanno spinto USA e UE ad applicare sanzioni dure contro Teheran, con il blocco delle importazioni di greggio.

Ciò sta già contribuendo ad esacerbare una crisi economica dai tratti molto duri. L’inflazione è volata al 22% e il tasso di disoccupazione è al 15%. Il rial si è svalutato del 40% in pochi mesi contro il dollaro. Il malcontento popolare è molto forte e proprio questo potrebbe portare a una fuga dai seggi, più che motivazioni di macro-politica.

Il voto religioso dovrebbe essere preponderante nelle campagne, mentre nelle città si potrebbe registrare una forte avanzata dei riformisti, anche se gli appelli al boicottaggio potrebbero danneggiarli più dei probabili brogli.

I primi dati ufficiali sull’affluenza dovrebbero arrivare stasera, quando inizieremo a capire quanto saldo siano le istituzioni nate dalla rivoluzione del 1979.

Di certo, per le strade delle città gli iraniani sono consapevoli che proprio la politica di chiusura all’Occidente di Khamenei sarebbe alla base dei molti loro problemi economici. In giro, si respira la sensazione che il Paese reale sia stanco della sua classe dirigente e spirituale, la cui ottusità ricade come un boomerang ai danni della popolazione. Mentre rimproverano ad Ahmadinejad di non essere stato in grado di mantenere la promessa di gestire al meglio l’economia.

 

 

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Giuseppe Timpone