Oggi, 15 milioni di elettori sono chiamati in Siria a votare il referendum per la riforma della Carta Costituzionale, che prevede, tra le altre cose, anche l’introduzione di un sistema politico multi-partitico, come aveva promesso un anno fa il dittatore Bashir Assad, a capo di uno dei regimi arabi più sanguinari. Tuttavia, gli oppositori hanno lanciato un appello al boicottaggio, in quanto considerano il voto macchiato di sangue. E, purtroppo, malgrado la tornata elettorale, non si fermano gli atti di violenza, che stanno insanguinando quasi incessantemente la Siria da quasi undici mesi. Anche oggi, la città di Homs è stata oggetto di bombardamenti dell’esercito contro le forze ribelli e pare che tra le forze regolari vi siano almeno cinque morti. Altri quattro militari sarebbero stati uccisi nel corso di combattimenti nella capitale Damasco.
Intanto, le cifre che arrivano dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani sono agghiaccianti. In undici mesi, i morti sarebbero almeno 7.600, di cui almeno 2.000 sono state registrate tra le forze dell’esercito e della polizia, in sostegno del regime.
Il voto di oggi dirà di quanta salute goda ancora il regime di Damasco. Una bassa partecipazione alle urne sarebbe un segnale evidente dell’indebolimento di Assad, anche se quasi certamente saranno divulgati dati non totalmente attendibili sia sull’affluenza che sul risultato. Ci si dovrebbe attendere una maggiore partecipazione nella capitale, più filo-governativa delle altre città, per via della presenza di numerosi funzionari pubblici. E anche le bombe potrebbero disincentivare gli elettori a recarsi ai seggi.
Ma se la situazione interna sembra cupa, nemmeno lo scenario estero sarebbe più confortante. Due giorni fa, a Tunisi si è svolta la cosiddetta riunione degli “Amici della Siria”. Si tratta di un vertice fortemente voluto dalla Lega Araba, dopo il fallimento della sua missione degli osservatori. All’appuntamento hanno partecipato i Paesi del Golfo, la Turchia, l’Europa e gli USA. Assenti eccellenti sono stati la Cina e la Russia.
Questi ultimi si sono rifiutati di partecipare a un incontro che viene definito apertamente da Mosca quale un tentativo di ingerenza occidentale in Siria, sfruttando slogan in favore della democrazia e dei diritti umani. Anche Pechino ha dimostrato di tenere più a tenersi buone le cancellerie orientali, piuttosto che rispondere all’invito degli americani e degli europei.
Obiettivo del vertice era di individuare alcune soluzioni in grado di convincere Assad ad accettare un cessate il fuoco, che avrebbe consentito entro domattina agli aiuti umanitari di giungere a destinazione nella città siriane. Tuttavia, è stato solo un buco nell’acqua e ciò che è peggio è che a differenza delle attese della vigilia, gli oppositori interni si sono mostrati parecchio divisi sulla politica da seguire nei confronti del regime da un lato e delle forze straniere dall’altro.
Il segretario di Stato USA, Hillary Clinton, prima della riunione si era spinto fino a riconoscere ufficialmente il Consiglio nazionale siriano, che raccoglie molti delle forze di opposizione a Damasco. E forse sarà stato questo riconoscimento ad avere indispettito il Coordinamento siriano per il cambiamento democratico, che raggruppa molte forze di opposizione di sinistra. Il suo leader Haythman Manna non l’ha presa bene e ha fatto sapere che non avrebbe intenzione di dare seguito ad alcune proposte degli “Amici della Siria”, in quanto queste prevederebbero l’armamento delle opposizioni e la loro militarizzazione contro Assad.
Secondo il Cscd, invece, questa svolta militare sarebbe in contrasto con gli interessi e le aspirazioni del popolo siriano e, pertanto, sarebbero inaccettabili. Inoltre, Manna ha evidenziato come non tutti i gruppi di opposizione avrebbero ricevuto pari dignità da parte delle forze occidentali ed arabe.
All’estero, chi preme maggiormente per la linea dura è, anzitutto, l’Arabia Saudita. Riad teme che la Siria sia solo un antipasto di quello che avverrebbe con un rafforzamento dell’Iran sullo scenario mediorientale. In particolare, non è un mistero che dietro alle violenze di Damasco ci sia la mano armata di Teheran, che considera la Siria quasi un suo protettorato e avamposto nel Mediterraneo.
Gli arabi sauditi temono che in caso di fallimento delle forze di opposizione in Siria, Assad potrebbe rafforzarsi, così come la Repubblica degli ayatollah, rubando loro spazi in tutto il Medio Oriente e destabilizzando l’area. Per questo, per la prima volta nella sua storia recente sotto i Saud, Riad ha invocato un intervento contro Damasco, condannando ufficialmente e duramente le violenze del regime.
L’Europa ha annunciato un giro di vite delle sanzioni già varate qualche settimana fa e che già prevedono il blocco delle importazioni di greggio a partire da luglio, oltre che lo stop agli affari con la Siria e alle operazioni finanziarie con la sua banca centrale.
A frenare l’Occidente dal premere l’acceleratore su una possibile opzione militare ci sono soprattutto le opposizioni durissime e insormontabili di Russia e Cina, che sono anche membri permanenti de Consiglio di Sicurezza ONU e la consapevolezza che attaccando Damasco si darebbe vita a una guerra diretta con la più temibile Teheran.