PD nel caos a rischio scissione, Bersani nell’angolo

Ieri, l’incontro tra l’ex premier Silvio Berlusconi e il presidente del consiglio in carica Mario Monti è durato tre ore a Palazzo Chigi. Si è trattato del secondo faccia a faccia tra i due da quel 12 novembre, quando Berlusconi lasciò la guida del governo, per cederla al Professore. Questa volta, però, i toni e i sentimenti tra i due erano molto distesi e molto colloquiali. E la sintonia trovata tra il leader del gruppo parlamentare più forte e il capo del governo è stata la fotografia del nuovo corso politico, che si sta tramutando in un incubo per mezzo PD e per il suo segretario Pierluigi Bersani.

Nel corso dell’incontro, Berlusconi e Monti hanno discusso di tanti temi. Uno di questi è stato la riforma del lavoro, su cui il primo ha spronato il premier ad insistere e a non considerare l’articolo 18 un tabù. Ma si è parlato anche di giustizia, con Berlusconi che ha anticipato a Monti e al  sottosegretario Antonio Catricalà che la sentenza di sabato contro di lui è stata già scritta, auspicando che anche la giustizia possa essere riformata e precisando che quale che sia l’esito della sentenza, il sostegno al governo non verrà meno. Altro capitolo toccato è stato anche la governance della Rai, con il premier deciso a riformare la TV pubblica.

Nei suoi colloqui in privato con i suoi uomini, Berlusconi avrebbe confidato di essere assolutamente disposto a sostenere Monti anche dopo il 2013, prendendo atto che l’Italia sarebbe attualmente ingovernabile e che solo un esecutivo tecnico tra PDL e PD potrebbe affrontare questa difficile fase politica. L’ex premier, tuttavia, non sottovaluta i rischi dell’operazione, perché spiega che parte del partito sarebbe contraria e questo crea malumori anche tra gli elettori. Una cosa è certa: l’atteggiamento di Berlusconi e del PDL verso il governo è cambiato e se qualcuno ipotizzava che il centrodestra avrebbe fatto cadere il governo in primavera, per chiedere il voto anticipato, adesso deve fare i conti con uno scenario del tutto ribaltato, perché a sognare elezioni anticipate è ora solo Bersani e i suoi uomini più vicini.

In queste ultime ore, il segretario del PD prende schiaffi da tutte le parti. Qualche giorno fa era stato il suo predecessore e avversario interno Walter Veltroni a chiedere al PD di votare la riforma dell’articolo 18, anche se essa non dovesse essere condivisa dai sindacati (Cgil). Bersani aveva risposto anche direttamente, affermando che senza un sì del sindacato, l’ok del PD in Parlamento non potrebbe essere scontato. Una sorta di subordinazione alla Cgil, che crea più di un imbarazzo agli stessi parlamentari del suo partito.

La reazione più dura alle parole di Veltroni è stata del responsabile economico Stefano Fassina, il quale dopo avere attaccato l’ex segretario, sostenendo che sia più vicino alle posizioni del PDL che a quelle del PD, ha annunciato di partecipare al corteo organizzato da Fiom contro il governo. Siamo alle contro-manifestazioni, come ai tempi non d’oro del governo Prodi, quando parte della maggioranza sfilava contro sé stessa.

Bersani non solo non ha stigmatizzato l’annuncio di Fassina, ma lo ha persino difeso, nella convinzione che la politica del colpo al cerchio e uno alla botte sia la soluzione per mantenere calma la base. Ma le cose stanno molto diversamente.

Paolo Gentiloni, Dario Francheschini, Roberto Giachetti, solo per citare alcuni big del PD, hanno chiarito papale papale che il PD deve sostenere il corso riformista di Monti e che nel 2013 non potrà essere presentata agli elettori la coalizione di Vasto, ossia l’alleanza con l’estrema sinistra di Nichi Vendola e il partito manettaro di Antonio Di Pietro.

Monti dovrebbe essere premier anche dopo il 2013, secondo le intenzioni dell’ala ex veltroniana del PD, che non sarebbe disposta a fare marcia indietro ora. Al contrario, si sta materializzando l’incubo più grande per Bersani: essere disarcionato prima che arrivi il voto, quando i sondaggi danno il PD primo partito in Italia, in grado, quindi, di richiedere la poltrona del premier per sé.

Sarebbero almeno 80 i parlamentari del Partito Democratico pronti a votare in favore della riforma del lavoro, anche contrariamente alle indicazioni eventuali della segreteria. Un atto di insubordinazione, che darebbe vita nei fatti a una scissione dalle conseguenze catastrofiche.

E che il PD stia diventando una formazione secondaria nella maggioranza lo dimostrano anche le parole del ministro del Welfare, Elsa Fornero, che ha affermato senza mezzi termini che anche in assenza di un placet del PD, la riforma sarà presentata lo stesso in Parlamento. Una batosta d’immagine per il segretario, quasi umiliato dall’esecutivo che ha contribuito a fare nascere.

Per questa ragione, Bersani lavorerebbe per andare alle elezioni anticipate già in primavera inoltrata. Il suo piano si basa sulla previsione di una vittoria netta alle amministrative, con un PDL molto indebolito, che egli potrebbe sfruttare per reclamare il voto. Solo così potrebbe conservare la speranza di vincere le elezioni politiche e di gestire il partito, i cui candidati con questa legge elettorale sarebbero nominati tutti dalla segreteria, cioè da lui.

Tuttavia, bisogna fare i conti non solo con la diaspora interna all’orizzonte, ma anche con l’assenza di una reale coalizione con cui eventualmente concordare le urne anticipate, dato che il Quirinale non avallerebbe questa operazione, essendo il maggiore sponsor del governo tecnico e con i centristi che non gradirebbero per nulla questo atto irresponsabile. Inutile dire che l’uomo di Piacenza è rimasto con una patata bollente in mano.

 

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