Una delle vittime illustri del governo Monti è certamente Pierluigi Bersani, segretario del Partito Democratico. Ci sono volute pochissime settimane per capire che l’operazione che disarcionò a novembre il Cavaliere, facendo cadere il suo governo, pian piano si stava trasformando in un boomerang politico e di consensi per coloro che da sinistra avevano non solo benedetto, ma invocato a gran voce la nascita di un governo tecnico. Dopo qualche settimana trascorsa strategicamente e anche per via dell’abbattimento morale in silenzio, l’ex premier si è riappropriato lentamente e senza mai strafare del suo spazio politico, mentre contemporaneamente arretrava l’azione politica di Bersani, che da protagonista del ribaltone ne è stato schiacciato.
L’aria per il PD sta diventando pesante, soprattutto, negli ultimi giorni, dopo che il Popolo della Libertà ha aperto sia sulle riforme costituzionali che sulla legge elettorale, palesando anche la volontà di dare seguito a un’esperienza di larghe intese, dopo il voto nel 2013. Per Berlusconi, infatti, tale ipotesi sarebbe il male minore, perché riuscirebbe ad evitare la sconfitta, creando le condizioni per un governo con l’UDC di Pierferdinando Casini e rimandando all’opposizione il PD.
Bersani, tuttavia, non può accettare l’idea di presentarsi alle urne, dichiarandosi favorevole alle larghe intese con l’arci-nemico di sempre, in quanto perderebbe il consenso della sua stessa base elettorale, cresciuta negli ultimi venti anni a pane e anti-berlusconismo e certamente dovrebbe rinunciare a prescindere a un’alleanza con Di Pietro e la sinistra radicale. Per questo, il segretario del PD ha espresso la convinzione che con il voto finirebbe l’esperienza delle grandi coalizioni, mentre bisognerebbe presentarsi agli elettori con un piano che li coinvolga nelle riforme istituzionali.
Ma che ci sia molto nervosismo nel PD lo dimostra il secondo attacco in due giorni che Bersani lancia all’indirizzo del governo che sostiene. Se il giorno prima aveva parlato di un sostegno non incondizionato a Monti, ieri ha definito le ultime esternazioni del ministro dell’Interno Cancellieri, insieme a quelle della Fornero e del sottosegretario alla Cultura, Antonio Martone (“sfigato chi non si laurea a 28 anni”), quali una continuazione ideologica dei toni del governo Berlusconi.
Una vera e propria presa di distanza, temperata solo dalla dichiarazione che altri (PDL) starebbero facendo il giochetto di sostenere il governo, ma per attaccarlo quotidianamente in giro. Sarà, ma i toni a Botteghe Oscure sono cambiati e se fino a qualche tempo fa si era per l’appoggio sempre e comunque, adesso si mette in discussione la politica di Monti sul lavoro, sulla cui riforma l’esecutivo è impegnato a dare esecuzione e risposte alle richieste della UE.
Si potrebbe dire PD vittima di sé stesso, perché ora è costretto a prendere le distanze da un progetto che fino a qualche settimana fa auspicava in gran coro per eliminare completamente Berlusconi e il suo partito, che certo sta messo molto male, ma non si è squagliato come si prevedeva.
A squagliarsi, invece, potrebbe essere la leadership di Bersani, che domenica scorsa non è riuscito nemmeno a fare vincere il suo uomo nella sua città, Piacenza. Nella città emiliana si votava per le primarie di coalizione, al fine di decidere chi schierare come sindaco alle comunali di maggio. L’uscente Roberto Reggi, dopo due mandati consecutivi, non poteva più candidarsi ed ecco che Bersani sosteneva il post-comunista Francesco Cacciatore, attuale vice-sindaco, contro cui correvano Paolo Dosi, assessore alla cultura dell’amministrazione Reggi e Gianni D’Amo.
Alla fine, Cacciatore ha riportato solo il 34,5% dei consensi, contro il 40,3% di Dosi, che pure è un personaggio modesto della politica locale, nel senso che non ha sinora ricoperto ruoli tali da metterlo in luce. D’Amo ha preso solo un misero 7% dei voti, essendo l’uomo di riferimento degli ambienti radical-chic della città. Insomma, Bersani ha perso in casa contro un candidato cattolico, segno tangibile delle difficoltà dell’attuale segreteria nazionale ad imporre propri uomini e una linea condivisa.
Allo scenario di sempre maggiore isolamento sul piano nazionale, quindi, il segretario del PD deve fare anche i conti con le difficoltà crescenti locali e con pezzi molto ampi della base che vorrebbero un abbandono immediato del governo, ritenuto con un’impostazione politica di destra.
Quanto potrà ancora durare questo dilemma a sinistra? E’ evidente che il PD non potrà tirarsi indietro adesso, perché rischierebbe di rompere qualsiasi dialogo con Casini e gli sarebbe addebitata la crisi, dopo avere sostenuto le ragioni dell’urgenza di un esecutivo tecnico. Allo stesso tempo, già da oggi si apre il tavolo sulla riforma della legge elettorale, chiesto e voluto dal PDL. Sarà l’occasione per verificare se ci sia o meno la volontà di fare le riforme. Queste sarebbero una buona copertura per entrambi i due grossi partiti per prendere tempo e arrivare al 2013 con una buona giustificazione del loro sostegno a Monti e presentarsi con qualche cosa in più di un pugno di mosche, davanti agli elettori.
Di certo, però, il PD sembra quei pifferai, che scesero dalla montagna per suonare e furono suonati.